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CAVA DE’ TIRRENI (SA). Presentazione del libro “Marcello, poeta Fortunato”

Lunedì 30 dicembre, alle ore 18:00, presso il Complesso Monumentale di San Giovanni di Cava de’ Tirreni in Corso Umberto I, sarà presentato il volume Marcello, poeta Fortunato, riedizione postuma della raccolta di poesie in lingua napoletana “A tiempo pierzo”, di Fortunato Marcellino (Arti Grafiche Editrice). Interverranno il Sindaco di Cava de’ Tirreni, Vincenzo Servalli, il Vicesindaco e assessore alla Cultura Armando Lamberti, don Osvaldo Masullo, Vicario arcivescovile, Alfonso Romaldo, imprenditore, Tommaso Avagliano, editore, Geltrude Barba, Presidente del Gruppo teatrale “Luca Barba”. Condurrà Franco Bruno Vitolo, insegnante e giornalista.

L’iniziativa, promossa dalla famiglia dell’autore, è nata nel trentesimo anniversario della precoce scomparsa, a soli cinquant’anni, di Fortunato Marcellino, che è stato uno dei più noti e apprezzati poeti territoriali in lingua napoletana nella seconda metà del Novecento. Scrisse centinaia di poesie, di vario genere e argomento (la famiglia e gli amici, le vicende di Cava de’ Tirreni, la vita interna delle Arti Grafiche Di Mauro, di cui era dipendente, le problematiche sociali, affettive ed esistenziali…).

Ottenne premi e riconoscimenti anche a livello nazionale: tra gli altri, una menzione speciale al Concorso “Giovanni Gronchi” di Pontedera. La sua raccolta, ‘A tiempo pierzo, fu pubblicata in due edizioni, sempre dalle Arti Grafiche Di Mauro (1983 e 1992), con prefazioni di Tommaso Avagliano.

CAVA DE’ TIRRENI (SA). Arcoscenico&risate in scena con la castità impura di “Matrimonio … in bianco!”

Un misto tra la farsa alla napoletana e la pochade alla francese, un divertissement allo stato puro, un piccolo ritorno alle origini rispetto ai salti drammatici di Hope e Jude dello scorso anno e alla recente sia pur leggera e arcoscenicamente vivace satira all’italiana di Un’eredità poco mancina sugli scontri e/o le forzate convivenze tra la destra e la sinistra politiche.

Ma proprio per questo non è stato meno impegnativo. Far ridere, lo sappiamo, non è certo più facile che scatenare emozioni dolorose, anzi. E ci è riuscita, a far ridere, la Compagnia Arcoscenico di Luigi Sinacori, con Matrimonio… in bianco!, scritta dallo stesso Sinacori, in scena il 7 e l’8 dicembre all’ex Seminario Vescovile, secondo spettacolo della Compagnia da sola nel cartellone congiunto con il Piccolo Teatro al Borgo di Mimmo Venditti, che ha già eduardianamente prodotto di suo la classicissima decembrina Natale in Casa Cupiello e, in matrimonio scenico per niente in bianco con gli stessi Arcoscenici, Le voci di dentro.

La vicenda racconta di un rapporto di coppia non consumato, prima a causa preservazione verginità e per altri motivi neppure dopo, in un matrimonio malvisto. Matrimonio in bianco quindi, per il vestito nuziale e in bianco per l’imene ancora intatta. E tutto sommato anche per una festa non consumata, per via dell’opposizione di una suocera petulante invadente e ben poco contenta del genero imbranato e pocofacente. Ma per il resto “si consuma”, e come!, tra amori adulterini, seduzioni a catena e acque chete imbordellate, sfociando il tutto in un albergo del libero scambio in stile Feydeau, gestito da uno scatenato Sinacori autoregista in scena, mezzo effeminato, mezzo allupato, mezzo furbacchione e molto doppiosensista, nel pieno della sua verve comico-trasformistica.

Quando si affrontano situazioni del genere, che riproducono, senza bisogno di attualizzarli, gli stereotipi del vecchio tetro delle maschere, gli attori devono saper entrare in sincronia con gli altri e mantenere costantemente i ritmi di battuta e all’occorrenza essere loro stessi delle maschere col volto umano. Per far questo conta molto il ruolo del Direttore d’orchestra, nel nostro caso il buon Luigi, che ha fatto cantare gli altri e per conto suo ha “cantato” e portato la croce, ma non certo da solo, anzi in buona compagnia, a cominciare dall’insopportabilità sferofragica della suocera Pina Ronca, come al solito bucascenico animale da teatro. Ma come non apprezzare il disinvolto, coinvolgente e anche un po’ “paraderetanico” imbambolamento di Gianluca Pisapia, sposo in bianco-nero, le ambiguità e le finte ingenuità della colorata (e ben intonata nel canto) sposa Mariella, Licia Castellano, il prezzemolismo discreto e pettegolo del portinaio Mariano Mastuccino, le buffe e forse ipocrite ostentazioni di castità di suora Francesca Cretella, il sepolcro imbiancato del sacerdote Federico Santucci, il divertente uccellofobico mutismo di Anna D’Ascoli, sorella del portinaio, miracolata da un’apparizione uccellifera, il nero vedovile e sexyfedifrago di Enrica Auriemma, moglie di un esagitato e impistolato capitano Luca Ferrante, dall’umore altrettanto nero e forse giustamente geloso e cornuto, il flash playboyco di Raimondo Adinolfi, montante fantino dal nome evocativo (Lanfranco Dettorini=Gianfrando Dettori dei tempi in cui tutta l’Italia si dava all’Ippica) gli intrighi provocanti di Anna Cortone D’Amore, cameriera tonterella in casa e spintarella fuori?

Con personaggi e situazioni del genere, teatralmente non è difficile perdere l’empatia con lo spettatore, la cui attenzione va tenuta sempre accesa dalla risata, dal sorriso e dalle preparazioni alle battute ed agli equivoci. E non è difficile neppure perderla perdendo la misura e i toni giusti. Da questo punto di vista, nonostante fisiologiche oscillazioni, l’Arco Scenico è rimasto ben saldo, e in evidente maturazione rispetto alla resa di scene analoghe ai suoi inizi. E i novanta minuti dei due atti sono scesi giù come una gazzosa fresca in un’estate calda, ottenendo un gratificante consenso da parte di un pubblico che giustamente sempre più numeroso, stavolta in sold out!, affolla la Sala dell’ex Seminario Vescovile, permanente e utilissimo surrogato del Teatro che non c’è.

Dopo questa parentesi, il 4 e 5 gennaio, il cartellone continua con un altro classico vendittiano, Mio marito aspetta un figlio, già messo in scena da altre compagnie in varie parti d’Italia. Intanto gli Arcoscenici si preparano ad un gennaio molto caldo, che li vedrà il 25 e 26 impegnati con Jude, la riedizione di un testo originale di Mariano Mastuccino collegato alla Shoah e alle Giornate della Memoria. Dal riso al pianto, insomma. Ma quando una compagnia ci riesce, allora non ci resta che sorridere …

CAVA DE’ TIRRENI (SA). I mostri del vuoto accanto, di Anna Di Vito: un viaggio nei nostri inferni

Sarà presentato in Comune venerdì 3 gennaio.


Nell’ambito delle iniziative in programma a Cava de’ Tirreni per le festività natalizie e di fine anno, spicca un interessante incontro con il viaggio nell’inferno reale proposto dal libro I mostri del vuoto accanto – Storie di ordinarie follie” di Ripley Free, pseudonimo di Anna Di Vito, giovane scrittrice “nostrana” emergente, che già qualche tempo fa si era fatta notare per gli spiazzanti racconti delle sue “Cronache psichedeliche.”

Alla presentazione del volume, il 3 gennaio p.v., nella Sala di rappresentanza del Palazzo di Città, interverranno il Sindaco Vincenzo Servalli, il Vicesindaco e Assessore alla Cultura Armando Lamberti, il prefatore del libro e già Sindaco di Cava de’ Tirreni Luigi Gravagnuolo, Anna Cristina Pentone, Dirigente Scolastica, Tonino Scala, scrittore, l’autrice Anna Di Vito, lo scrivente Franco Bruno Vitolo, insegnante in pensione e giornalista per passione, che farà anche da conduttore.

L’opera, vivificata da una scrittura chiara e diretta e coinvolgente, con un titolo che “buca la pagina”, significativamente introdotta in copertina da una “tsunamica” immagine del visionario Jeronimus Bosch, è composta da tre racconti, il cui titolo è già tutto un programma: I mostri del vuoto accanto, La spartizione dell’ingiustizia, I feti di Ratonta. Ognuno di questi racconti, introdotto da illuminanti versetti dell’autrice stessa, è concluso da note di postprefatori di qualità (Annalisa Montalbano, Tonino Scala, Paolo Gradi). Alla fine, troviamo delle piccole ed emozionate Novelle di Appendice, in cui alcuni personaggi dei tre racconti, segnatamente vittime delle vicende narrate, si presentano in prima persona, in un’originale evocazione della celeberrima “Antologia di Spoon River”, di Edgar Lee masters.

Non è l’unico richiamo a stelle polari della cultura e dello spettacolo. Il nome d’arte stesso, Ripley, richiama, per dichiarazione dell’autrice, la coraggiosa e protagonista della serie Alien; e, aggiungiamo noi, Il talento di Mr. Ripley, famoso film di Anthony Minghella, in cui il Ripley in questione è attore di uno stravolgente sdoppiamento, come succede ad alcuni personaggi dei racconti, segnatamente alla protagonista del primo, eponimo del libro, cioè Elisabetta Nuoro, trasformata in un’ “altra se stessa”.

Hanno i denti aguzzi, i tre racconti, per quanto mordono l’attualità più drammatica e scarnificano a sangue alcune zone buie dell’animo umano portate alla luce soprattutto dall’inferno sociale e personale.

La violenza familiare sulla donna, la svangante avventura dei barconi, i muri sociali e politici di fronte all’inserimento dei migranti (con evidenti riferimenti alla “persecuzione” subita dal Sindaco di Riace), l’inquinamento devastante in una immaginaria Ratonta di un futuro da fine del mondo, con chiara evocazione della Taranto di oggi), queste le principali tematiche legate al nostro mondo di oggi. Al nostro mondo di sempre è legato lo scavo sulla violenza, in parte minore connaturata al genere umano e alla sua storia, in massima parte generata dalle violenze e dalle ingiustizie subite, una violenza che può scatenarsi contro terzi, come in Elisabetta nel primo racconto, o contro se stessi, come l’autodistruttiva tossicodipendente Alexia, corpo senz’anima vittima di una società malata e indifferente, oltre che di genitori sbagliati.

Già per questo, oltre che per la sua scrittura chiara e diretta, il libro può catturare e stimolare l’attenzione del lettore. L’elemento più accattivante rimane la visione globale sul mondo di oggi e le stravolgenti e a volte divergenti emozioni che esso può suscitare.

È un libro pieno di mostri, innati e indotti, pieno di speranze svuotate, ma non vuoto di speranze. C’è il mostro maschilista, anaffettivo, “con la scimmia sulla schiena”, che uccide l’amore possibile e genera nella sua donna un nuovo mostro per evitare che l’orco divori il suo cuore. C’è il mostro della politica razzista ed emarginante che colpisce anche il bisogno elementare dello straniero, nonostante egli sussurri “Non voglio toglierti nulla di tuo, non togliermi nulla di mio”. C’è il mostro dei bambini schiacciati, poveri cristi di seconda mano sbattuti nel labirinto degli inesistenti, in un mondo di vittime più o meno innocenti e bagnato dalle lacrime della storia. C’è il mostro della Taranto 2050 presidiata dall’Esercito e dalla Marina in attesa di essere evacuata per eccesso di inquinamento.

Ma ci sono anche bambini che sopravvivono o aiutano a sopravvivere, ci sono servizi sociali accoglienti, giornalisti intellettualmente onesti (una di queste si chiama Anna De Vitiis, guarda un po’…), ci sono geniali ideatori di rigenerazioni genetiche, embrioni purificabili di un futuro dopo il diluvio…

Nella visione pessimistica dell’autrice e utilizzando la bellissima metafora di Luigi Gravagnuolo nella sua prefazione, il male è connaturato all’uomo e alla società come i fili in un arazzo.

Ma c’è un varco “dantesco”… Nel cammino tripartito del libro, se il primo racconto, a nostro parere il più bello e originale, fa precipitare il lettore in un inferno disperato, il secondo apre delle prospettive purgatoriali proprio attraverso l’individuazione di frammenti di società meno contaminati, il terzo biforca in due il Paradiso: quello dove si va dopo la morte e quello che si può conquistare da vivi dopo un adeguato cammino di purificazione dal male. Sarà anche genetica, ma capace di liberare la luce che comunque è nell’uomo.

Non è un ordine casuale. Perciò, se ci togliamo la scimmia dalla schiena, se seguiamo dal profondo il filo rosso della sua ricerca d’amore e di un “paese innocente”, nonostante il suo “sapore tossico”, questo libro in fondo spinge a reagire, ad andare avanti.

Del resto, l’autrice stessa ci tiene a chiamarsi “Free”, cioè libera. Lei stessa ci dice che va avanti chi mentre crea il futuro già lo vive…

E allora si può… Allora, conoscendo i bubboni da combattere, dove sta scritto che il futuro debba essere per forza la fine del mondo?

CAVA DE’ TIRRENI (SA). Riaperta al pubblico la Biblioteca di San Francesco, l’amica ritrovata

Un ampio stanzone che si estende in lunghezza, quasi quanto la navata della Chiesa, sul cui interno si affaccia dall’alto in una suggestiva visuale attraverso ampi finestroni ad arco. Si respira l’aria della Storia e della Cultura, qui dentro, nella Biblioteca del Convento di San Francesco, da poco rimessa in sesto dai frati, guidati con evangelico dinamismo dal Padre Guardiano Frate Pietro Isacco.

Deus ex machina del restauro è stato Frate Mimmo Marcigliano, che a buon diritto ora può aggirarsi soddisfatto nella Sala finalmente ripulita, tra cinquecentine, antiche carte geografiche, secolari corali. Lo ha accompagnato e lo accompagna nella sua azione la prof. Grazia Talone, che ha dato una mano ferma nell’opera di ricostruzione e che lo aiuterà nella gestione delle fasi di apertura al pubblico e nelle visite guidate, che faranno spesso pendant con il Presepe, la Sacrestia e le altre spettacolari visuali del Complesso.

La Biblioteca è decollata ben cinque secoli fa, quando, dopo la separazione dai Frati Conventuali voluta da Papa Leone X nel 1517, l’Ordine Francescano dei Minori prese un grande impulso anche dal punto di vista culturale. Si intensificarono gli studi e di conseguenza gli acquisti e la produzione di libri, favoriti del resto dall’invenzione della stampa a caratteri mobili. Fin dagli inizi, essendo sede di Studio Provinciale, è stata particolarmente ricca, essendo adibita non solo alle liturgia religiosa, ma alla cultura teologica, filosofica, storica e letteraria in generale: tra gli autori in essa depositati, dei campioni come Tommaso d’Aquino, Bonaventura da Bagnoregio, Giovanni Duns Scoto.

Ha conosciuto momenti di grande splendore, arrivando fino a quindicimila volumi, oggi solo in parte dispersi per gli eventi spesso traumatici degli ultimi secoli, dai terremoti alle requisizioni del neonato Regno d’Italia e alle contestuali leggi di soppressione. Dopo un primo tentativo di realizzazione di una sede appropriata, nel 1935, in locali sopra la Sacrestia, fu di nuovo crisi nera per gli effetti della guerra, fino alla riorganizzazione definitiva, cominciata nel 1970. Tra gli artefici, vanno ricordati Padre Serafino Buondonno, la cui opera fu interrotta dalle conseguenze del sisma dell’80, e, nella fase di ricostruzione della Chiesa, Fra Luigi Petrone, che trasportò la sede nei locali attuali, affacciati sull’interno della chiesa, lungo la navata destra. Negli ultimi tempi però era stata un po’ trascurata, sia nella custodia del materiale sia nella protezione dalla polvere dilagante dai libri, dalla chiesa, dal tempo che passa.

Dopo l’inserimento delle invetriate protettive e il nuovo restauro, la Biblioteca è tornata Biblioteca, aperta agli studi, alle visite e agli incontri. E sarà un nuovo tassello per il rilancio culturale e sociale della Chiesa più amata dai Cavesi.

CAVA DE’ TIRRENI (SA). “Le voci di dentro”: buona la prima volta insieme per il Piccolo Teatro al Borgo e Arcoscenico

Sala del Vecchio Seminario in Piazza Duomo di Cava de’ Tirreni: in scena “Le voci di dentro”, di Eduardo De Filippo, uno dei suoi capolavori, che, come è noto, racconta del sogno di un presunto omicidio scambiato per realtà e capace di far emergere tutta una raggelante realtà di rancori e meschinità, di veri e propri “crimini del cuore”, anche all’interno della stessa famiglia.

Quella di sabato 23 e domenica 24 novembre era la prima esibizione congiunta dello storico Piccolo Teatro al Borgo di Mimmo Venditti e degli scalpitanti puledri dell’Arcoscenico di Luigi Sinacori. Ed è andata bene. Lo scorso anno i due gruppi avevano costituito una coppia di fatto, convivendo sullo stesso cartellone e unendo le energie nelle organizzazione. Una struttura alla pari, ma ancora in parte con la disposizione psicologica della chioccia vendittiana che fa crescere i pulcini sinacoriani, accogliendoli con sé e fornendo una stimolante apertura di credito. L’avere quest’anno riformato la “società”, per di più aggiungendo altri due spettacoli a quelli storici dei due gruppi e producendo due rappresentazioni edoardiane in comune (oltre a Le voci di dentro, Il Sindaco del Rione Sanità) è stato il segno che oramai la fiducia era stata ripagata, la coppia si è consolidata e si è giustamente pensato di “allargare la famiglia”, generando i due spettacoli insieme.

Mancava però la prova del fuoco, cioè il risultato pratico agli occhi del pubblico. E la prova del nove rispetto alla prova del fuoco è stata l’opinione diffusa che, se un esterno avesse visto lo spettacolo senza sapere nulla degli attori, non avrebbe certamente pensato che in quel momento si stava sperimentando la convivenza di due compagnie diverse. Merito anche del fatto che l’opera è stata già più volte rappresentata da Venditti (che ne è anche l’applaudito protagonista, insieme col col suo storico compagno di scena, Matteo Lambiase, una garanzia di qualità e di “professionalità”), quindi gli arcoscenici si sono inseriti in un contesto già consolidato, ma l’esito non sarebbe certo stato positivo se non ci fosse stato anche il talento primario dei vari Luigi Sinacori (un portinaio felicemente vivace e impiccione), Gianluca Pisapia (il giovane Cimmaruta, ben reso nella sua “fragile tostità”), Mariano Mastuccino (un rassicurante secondino) e compagnia bella (qui il termine è proprio il caso di usarlo…). Una compagnia bella composta anche da Daniela Picozzi e Raffaele Santoro (convincenti nei panni dei coniugi Cimmaruta, rabbiosamente rancorosi tra loro, travolti dalle delusioni di coppia e dalle spine di un lavoro ora mancante ora ambiguamente utile), Licia Castellano (la cameriera, colorita affabulatrice iniziale di un orrido sogno, che anticipa l’atmosfera della storia), Maria Spatuzzi (zia “saponatrice” adeguatamente “familiare” e misteriosa), Anna D’Ascoli (opportunamente disperata come dello sparito Amitrano), Raffaele Palazzo (malavitoso “Capa d’angelo” e buona presenza scenica), Attilio Lambiase (in due ruoli molto sensibili ma poco visibili, come quello di Zi’ Nicola e Aniello Amitrano), Enza Senatore (figlia smarrita e accusatrice).

 

Lo spettacolo è andato avanti a scorrimento veloce, con la giusta empatia sulla scena tra gli attori e dalla scena tra gli attori e il pubblico. Dalla nuova compagnia una e bina è venuta fuori anche la forza profonda del contenuto di quella che è una delle più belle e più profonde commedie eduardiane, dove si sente forte non solo l’eco di Pirandello, ma anche la personalità del grande commediografo napoletano. Ad esempio, se quella sospensione tra sogno e realtà e quel disvelamento dell’inferno familiare sono anche squisitamente pirandelliani, sono eduardiani l’umanità popolare e carnale dei personaggi e lo scioglimento finale della verità in discussione cioè l’apparizione reale di Amitrano.

Eduardo non si lascia mai incatenare dal relativismo assoluto pirandelliano: per lui non siamo uno, nessuno o centomila, ma anche “qualcuno”. Per lui può anche capitare che “è così se ti pare”, ma alla fine qualcosa appare. Ad esempio, se è “impossibile”, oltre le “quasi evidenti evidenze”, convincere i singoli Cimmaruta che il crimine non è stato commesso da uno di loro e che Alberto Saporito, il sognatore errante, non ha le prove del presunto omicidio, tuttavia alla fine anche loro, che su questa falsa credenza stavano quasi per costruire un vero omicidio (quello del testimone scomodo, Alberto) devono fare i conti con la realtà oggettiva: Aniello Amitrano è vivo e vegeto e non ha subito nessun attentato alla sua vita.

È pirandelliana e eduardiana l’idea che non ci sono buoni e cattivi, ma che ognuno ha il suo fardello di pena da gestire in quanto uomo. Eduardo però non vola nella metafisica dell’uomo in astratto, ma penetra nella triste realtà dell’uomo invischiato nella povertà di origine sociale e nelle meschinità di origine personale. Essendo anche la società “partorita” dall’uomo, Eduardo alla fine rivela un profondo pessimismo sul modo con cui vanno le cose, sull’incomunicabilità che approfondisce i solchi tra le persone e a volte genera guerre tra le quattro mura di casa.

È questo il retrogusto amaro che viene dall’intero dramma e dal pirandelliano “smascheramento” delle voci di dentro. Esso è incarnato dagli sputi e dal silenzio permanente e volontario del mitico “zi’ Nicola”, che, rinchiuso nel suo sgabuzzino, comunica solo con i fuochi artificiali, compreso dal solo Alberto Saporito, superstite bagliore di un’umanità perduta. È incarnato dalla gestione che il personaggio fa della situazione in tutto il terzo atto: una messa al muro delle responsabilità morali della famiglia Cimmaruta, disarmante groviglio di vipere, e di suo fratello Carlo, un Matteo Lambiase come al solito efficace nelle sue colorite recitazioni e qui capace di rendere bene la meschina e opportunistica ipocrisia del personaggio, che ha approfittato della situazione per vendere la roba di casa a suo vantaggio.

Ci ha convinto pienamente la resa teatrale organizzata da Venditti in questo raggelante finale. Diversamente che in altre messe in scena della stessa opera, qui egli, senza patetizzare lo smarrito dolore del fratello tradito e della persona innocentemente sotto tiro, con il suo consolidato mestiere e la sua artistica capacità di bucare la scena, ha ben evidenziato la consapevole rabbia verso le colpe e gli eccessi di un miserabile tessuto sociale che mette sotto cenere gli affetti e la lealtà. Conseguentemente, possiamo anche comprendere la piccola forzatura rispetto al testo nella scena finale. I due fratelli non rimangono immersi nel gelo che si è creato tra loro, ma Alberto trova la forza del perdono e dell’abbraccio. Un messaggio forte ed eticamente attuale, quello vendittiano, in questi nostri tempi fatti di muri più che di ponti.

Meritati allora gli applausi e i complimenti ricevuti alla fine da tutta la Compagnia Bella. Quasi il viatico per continuare ancora con convinzione ed entusiasmo.

E sabato e domenica prossima, 7 e 8 dicembre, si continua. In scena Un matrimonio in bianco, di Luigi Sinacori: con i puledri di Arcoscenico pronti per una nuova scalpitata in avanti. Il prossimo articolo sarà dedicato solo a loro: a questo prossimo spettacolo, a quello del debutto ed al loro personale bilancio di questo primo anno in coppia con Venditti.