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SALERNO. Presentata a Palazzo Sant’Agostino la maxiraccolta di Vittorio Pesca

Cento racconti e poesie: coinvolgente memoria di un’identità personale e sociale.


Le luci e le ombre, il calore e i colori di una vita, col piacere di raccontare fatti e fattarielli e recuperare ricordi ed esaltare i valori che hanno fatto da stelle polari nella navigazione della vita.

Questo il filo rosso della serata di venerdì 24 maggio, svoltasi a Salerno presso il Salone Bottiglieri del palazzo Sant’Agostino, per la presentazione dell’ultimo libro di Vittorio Pesca, Cento racconti … e poesie. È l’ottavo volume di una collana personale in cui, conservando sempre il suo stile e la sua personalità, tra prose e poesie racconta ora le speranze, le delusioni, le fatiche e le conquiste della sua esperienza di emigrante, (Cuore di emigrante, Pietre nel cuore, Canti d’amore, Un’altra vita,), ora il viaggio dell’esistenza, il rapporto con la parte terminale della vita ed il contatto con l’oltre (Al di là, Nuvole del tempo, Amore di Dio).

Sono intervenuti, e in qualche caso hanno anche letto frammenti della raccolta, l’on. Guido Milanese, la Dott. Pasqualina Battipaki (Assessore dell’Amministrazione Provinciale), la prof. Elena Ostrica (Presidente del Centro Artisti Salernitani, che ha donato a Pesca la medaglia d’oro), il dott. Antonio Spiezia (Presidente dell’Associazione “Cavalieri di Carinzia”, che ha donato a Pesca un diploma di onorificenza), Gina e Marco Pesca, sorella e figlio di Vittorio, personalità del mondo dell’Arte e della Cultura come Maria Pina Cirillo, Patrizia De Mascellis, Anna Senese (in arte Marina Sole), Gerardina Russoniello, Giuseppe Lauriello, Antonio Russolillo, Rosanna e Teresa Rotolo, Pina Sozio, lo scrivente Franco Bruno Vitolo. L’accompagnamento musicale, molto efficace e particolarmente applaudito, è stato affidato al tastierista Vittorio Bonanno, esecutore di testi di musica classica, e al cantante chitarrista Mimmo di Salerno, chansonnier esperto della canzone napoletana e trascinante “posteggiatore” a voce piena. A condurre, come sempre e con la sapienza e la sagacia di sempre, l’avv. Michele Sessa.

Con quest’ultimo lavoro, tirando fuori dal cassetto racconti scritti nell’arco di una vita e non ancora pubblicati, Pesca ha raccolto dall’albero della memoria i frutti sostanziosi e saporiti della sua identità e della sua evoluzione esistenziale, che poi è il riflesso di una ben precisa dimensione sociale e storica: il Cilento, la civiltà contadina, l’emigrazione del Secondo Novecento, l’urbanizzazione, la scoperta del benessere, i problemi e i disvalori della cultura occidentale avanzata.

La struttura è in prosa, condita o alternata con poesia, la scrittura è “al caminetto”: chiara e semplice, ricca di connotazioni, coinvolgente e comunicativa. Funzionale e gradita novità, il contenuto di ogni singolo racconto è preannunciato da un breve corsivo che fa da richiamo, quasi da promo.

Le tematiche formalmente sono state divise in quattro capitoli: affetti familiari, reminiscenze, amicizia e amore, fede e amore di Dio. Di fatto,sono tutte convergenti con le opere e la vita stessa di Pesca con l’evocazione di personaggi e valori che sono il cemento della sua identità. le radici fortissime di Piano Vetrale e della sua famiglia, il legame d’acciaio con i suoi affetti, la necessità dell’amore e della solidarietà nei rapporti umani, il senso della religione e dei suoi riti, la tristezza nel vedere le ingiustizie, l’aridità sentimentale, gli egoismi, le violenze dell’uomo Caino.

Su tutto, la bellezza e la fatica della vita quotidiana, impersonate dalla figura del padre, il padre suo della disperazione e dell’amore, della solitudine e della notte sotto le stelle, della forza e della volontà di andare a vanti. E quel profumo di pane appena sfornato dalla madre non è solo un ricordo gioioso ma è il profumo stesso di quell’abbraccio materno che tanto e per troppo poco tempo lo ha riscaldato e che ancora gli manca.

L’amicizia, compagna del cuore, viene preannunciata nella prima sezione ed esplode nella terza, dove però a dominare è l’amore, anzi gli amori, che pure fanno capolino in tutti i luoghi e situazioni, perfino nella sezione religiosa. Con malcelato orgoglio Vittorio evoca tanti incontri e sogni d’incontro, con donne che colpivano la sua fantasia ed i suoi sensi ed a loro volta erano colpite dal suo fascino virile e dalla sua fresca malizia.

A dominare, e a lasciare un poetico retrogusto, è però il sottofondo della sua malinconia esistenziale, in parte legata anche agli errori che si commettono nella vita di ogni giorno e nella società. La vita, pur bellissima, è in fondo un doloroso passaggio: sono numerosi i personaggi costretti a scavalcare muri insidiosi, a patire pietre nel cuore, ad affrontare le pene di una malattia o di un lungo distacco da questo mondo. Ma per lui, quanto più forte è il dolore, tanto più forte è la necessità dell’amore… e l’importanza di riconoscere i valori essenziali.

Nel finale, infatti, in frammenti che sintetizzano la persona e lo scrittore, attraverso un “sogno dell’uomo” egli denuncia quanto sia tardivo a volte per tanti riconoscere solo a maturità conquistata i sacrifici fatti dai genitori, quanto sia ingiusto vergognarsi della povertà di famiglia, quanto sia alienante privilegiare i valori materiali su quelli morali: a cosa servono i soldi maledetti, senza l’amore? E non a caso in conclusione viene esaltata la grandezza della Pace: Non è utopia, dobbiamo agire e lottare, conquistarla col grido del pianto, con la caparbia e la forza del cuore.

La forza del cuore, appunto. È questo il frutto più succoso e saporito dell’albero Pesca. È questo il senso più profondo di questa raccolta-raccolto. E, come tutti i raccolti, sia anche questo cibo e seme di un futuro migliore.

CAVA DE’ TIRRENI (SA). Con “La Fortuna si diverte” conclusa la bella stagione teatrale

Ma il divertimento continuerà … con la coppia Piccolo Teatro al Borgo-Arcoscenico. 


La strana coppia ha partorito una stagione bella e piena di salute e da coppia di fatto si sta avviando verso una forma di matrimonio civile. Possiamo dirlo in lieta consapevolezza, con piena avvertenza e deliberato consenso.

In effetti, sono molte le risultanze positive di questo connubio tuttp metelliano tra la Compagnia storica del Piccolo Teatro al Borgo diretta da Mimmo Venditti e la freschezza emergente dei giovani di Arcoscenico, diretta da Luigi Sinacori regista e “sceneggiattore”, in solido ménage a tre con gli amici di sempre Mariano Mastuccino e Gianluca Pisapia e con il sostegno di un gruppo in costante e brillante crescita.

Due programmi in un unico cartellone, cinque spettacoli a testa in alternanza, una casa comune organizzativa gestita spesso con concorde sinergia, una soddisfacente osmosi reciproca di spettatori prima fedeli ad una sola delle compagnie.

Fattori positivi di natura tecnica, ma i più positivi sono certamente il reciproco incontro culturale e la pionieristica apertura di credito fatta da un gruppo la cui immagine e prestigio è consolidata da oltre mille spettacoli in Italia e anche oltre frontiera. Ci hanno messo la faccia, Venditti e i suoi amici.

Alla fine, la faccia non solo non l’hanno perduta, ma è diventata più bella, senza trucco, perché la qualità dei lavori proposti da arcoscenico, di cui alcuni assolutamente originali, è stata sempre all’altezza della situazione, ripagando l’impegno e la disponibilità.

Lo ha più volte sottolineato lo stesso Venditti negli usuali interventi a sipario chiuso, avvenuti dopo tutti gli spettacoli e diventati spesso dei veri e propri siparietti, chiarificatori e pungenti.

Ad esempio, ha evidenziato l’emozione scenica e umana che sono stati capaci di dargli gli “Arcoscenici” inizialmente attraverso frammenti de La Voce rotta di Napoli, poi rappresentando con encomiabile maturità e forza empatica in Hope il tremendo dramma dei migranti e la desolata solitudine esistenziale in stile beckettino.

Venditti ha anche ricordato il personale divertimento nel vedere in prova e poi sul palco scene “arcosceniche” impregnate di quella comicità che non si produce mai a comando, ma grazie al talento ed ai giusti tempi di battuta e di movimento: ad esempio, la creazione dei primi soldi “falsi” nella tipografia de La banda degli onesti di totoiana memoria, o gli sketch paradossali in stile cabaret con uno scatenato Sinacori al femminile.

O anche, dulcis in fundo, i grotteschi smarrimenti di Un figlio a sorpresa tra personaggi in cerca dell’autore di un bambino, verginità che prendono per il naso, morenti ben viventi e malizie di amori in cooperativa, o ancora politici furbeggianti, sacerdoti priapeggianti, pettegolezzi desolanti.

Il tutto in un approccio di commedia umana che, insieme con le altezze di Hope, fa capire come, nel dramma e nella comicità, Sinacori, Mastuccino, Pisapia e i loro ruspanti amici stiano veleggiando verso quella dimensione dello spettacolo che non è autoreferenziale o strumentale, ma vuole essere un piccolo, ma ampio specchio di noi stessi.

Per questi indizi, e considerando anche la partecipazione agli spettacoli alla Mediateca Marte per ricordare la persecuzione razziale e celebrare la giornata della memoria, crediamo che questo sia stato per la giovane compagnia il momento del salto di qualità, da una dimensione solo ruspante allo spaccato di identità sociale e vibrazione umana che il teatro sa creare.

Ed è importante e significativo che tale salto sia venuto non da una rielaborazione passiva di testi altrui, ma soprattutto dall’ elaborazione attiva di testi scritti di propria mano. Insomma, una nobile artigianalità che è il passo più elastico ed energetico verso l’artistica professionalità.

Chiaramente, in questo discorso abbiamo finora privilegiato il ruolo degli arcoscenici e la loro importante novità nel panorama cittadino in più ampia prospettiva territoriale, ma non possiamo e non dobbiamo dimenticare la qualità scenica e professionale garantita da anni dal Piccolo Teatro e pienamente confermata anche dal cartellone di quest’anno.

Come sempre, Venditti e i suoi “ragazzi”, quelli storici degli ultimi decenni e i nuovi, promettenti acquisiti degli ultimi tempi, hanno privilegiato le corde comiche del teatro napoletano, ma sempre con un occhio privilegiato verso Eduardo e la sua capacità di andare a fondo e di far ridere pur nel dramma, o meglio ancora di far capire i drammi umani e sociali che vengono solo velati da una risata a volte acre e catartica.

A questa serie appartengono Napoli milionaria, eclatante capolavoro, il classico Natale in Casa Cupiello, rappresentato secondo l’originale versione in due atti, e l’eccitante Non ti pago, ricco di risate dal forte sapore pirandelliano per il disvelamento di brucianti fiamme d’inferno familiare.

Questi tre spettacoli, punta della stagione vendittiana e storici cavalloni di battaglia, sono stati corredati dalla deliziosa rilettura-divertissement della scarpettiana Miseria e Nobiltà e dalla chiusura in bellezza con La fortuna si diverte, tratta da un testo di Federico Tosti poi trasformato da Eduardo in Sogno di una notte di mezza sbornia.

A ritmo serratissimo, ottimamente orchestrato, una squadra affiatata e coinvolgente ha saputo fare da bella corona in contraltare e in controluce al dramma dell’uomo a cui un sogno malandrino ha regalato la chiave di una clamorosa vincita al lotto ma anche la data della sua morte. Un personaggio e una commedia a cui Re Mimmo, per il quale il palcoscenico è da sempre una flebo di giovanile freschezza e catartica malincomicità, ha permesso come sempre di “bucare” la scena e avvolgere gli spettatori in due ore di saporita distrazione.

Se la fortuna si è divertita, e anche il pubblico, e non solo per uno, ma per tutti e dieci gli spettacoli, non è stato merito del caso ma di scelte ben precise, di quell’elastico tra passato, presente e futuro che il connubio Venditti-Sinacori ha tessuto quest’anno e che, non dimentichiamolo, ha ricevuto tra l’altro un significativo e importante riconoscimento pubblico con l’assegnazione del premio Ponte Giovane da parte dell’Associazione Giornalisti “L. Barone”.

È un ponte che già permette di passare con facilità da una riva all’altra, ma soprattutto è un ponte in cui i lavori in corso devono essere proseguiti, per le opportune rifiniture e abbellimenti. Della serie “vi siete messi insieme consolidate il matrimonio”… E chissà che il rito finale di consacrazione non venga celebrato in una vera sala teatrale tutta metelliana… Non è vero, ma ci vogliamo credere …

CAVA DE’ TIRRENI (SA). Un “bel Po di emozioni“ per la presentazione in Comune del libro “Anima e versi”, di Anna Volpe, cavese doc di Taglio sul Po

Poesia di un incontro per un incontro di poesia …


anna-volte-libro-un-po-di-emozioni-cava-de-tirreni-aprile-2019-vivimediaÈ stata proprio poeticamente emozionale la presentazione a Palazzo di Città del libro Anima e versi, di Anna Volpe, cavese doc ma da anni trapiantata a Taglio di Po, nel Veneto, dove ha insegnato fino alla pensione e ora svolge attività di giornalista.

Per lei, l’emozione di un ritorno nella sua terra, che da sempre rappresenta l’Itaca del cuore.

Per i numerosi compagni di Liceo, rappresentati con affettuose parole da Maria Rosaria Marlia, l’emozione calda di una rimpatriata a carne viva con tanti ricordi e un grande abbraccio, reale tra i presenti in sala e ideale con i presenti nel cuore, precocemente volati nel paradiso della memoria (Pasquale Lamberti, Maria Caputo, Alfredo Venosi…).

Per i rappresentanti istituzionali, cioè la Presidente del Consiglio Comunale Lorena Iuliano, la Presidente dell’Iride Gabriella Alfano e i membri dell’Associazione Giornalisti “Lucio Barone”, un coinvolgimento tutt’altro che formale, per le ondate interiori che si sono scatenate in sala.

Per quasi tutti i presenti in sala, accomunati dall’appartenenza generazionale, il battito del cuore nel rievocare, nell’ambito di un passato di radici sociali e scolastiche che è un tesoro ancora fertile, la figura del carissimo prof. Anacleto Postiglione, recentemente scomparso, grande maestro di classicità, di humanitas e di vibrazioni umane, la cui presenza è rimasta stampata con piombo colorato e indelebile nelle pagine della nostra memoria.

A lui è stato dedicato il libro dall’autrice, la quale pur da lontano non ha mai interrotto quel rapporto culturale e personale che ha fatto da filo rosso nella tessitura della sua identità e della formazione emozionale. A lui sono state dedicati tanti segni di affetto sempreverde, nei commenti, negli sguardi, nelle relazioni, nell’abbraccio diretto alle figlie Daniela e Titti, intervenute per l’occasione. Era ancora uno di noi…

E per l’intero pubblico è stata comunque poesia l’impatto con un libro che contiene già nel titolo e nel sorriso azzurro del mare in copertina la sua anima romantica e lirica.

Donna dal tenero cuore, animo intriso di una straordinaria sensibilità, poetessa di sensi e sentimenti: così dicono di Anna Volpe nelle prefazioni Gino Sergi, Mario Semonovich e con loro Maria Olmina D’Arienzo, dirigente scolastica, una delle compagne del Liceo Classico “Marco Galdi”, speleologica analista della parola e entomologica relatrice dell’opera, che ha scritto, collaborato, parlato e partecipato con tutta la forza della sua cultura ma anche con tutto lo slancio dell’amica e della studentessa.

Da conduttore e relatore della serata, emozionalmente partecipe essendo io stato sia allievo del prof. Postiglione sia per un breve tempo suo supplente in classe nelle classi di Anna e dei suoi compagni, ho rilevato come l’insieme delle liriche del libro, più o meno coscientemente, non è una somma di poesie o una raccolta random, ma un cammino quasi a cielo aperto dell’autrice verso se stessa (e quel “verso” qui non è certo casuale…).

Lo confermano già i titoli delle sezioni: Radici, Paesaggi dell’anima, Amor tremendo, All’apparir del vero. Un tronco bello nodoso di vita interiore, non necessariamente legato alla successione spaziale e temporale. Poi, un ramoscello fiorito: due poesie nella lingua sua, quella napoletana, non a caso dedicate una alla terra campana che fa sempre don dan nel suo cuore, l’altra alla madre, che tanto ha dato e ha donato, pur lottando contro dolorose tempeste di vita, e con la quale era possibile solo una comunicazione visiva, essendo lei priva di udito.

Madre naturale e terra madre: è questa l’incubazione del viaggio di Anna, partito da una famiglia dove le ondate di dolore e le dolorose scomparse hanno cementato la necessità di stare abbracciati per poter volare, unendo le rispettive ali solitarie. Poi, la radice scuola: la dedica al Prof. Postiglione, che ha spalancato la mente e il cuore all’infinita bellezza della poesia, e quella alle compagne di classe, citate quasi tutte, in versi dove l’emozione poetica era evocata dalla semplice pronuncia del loro nome, che per molte era corredata anche dalla presenza fisica.

È questa la cornice dei colori che progressivamente Anna ha saputo mettere nella sua vita: quei colori che Maria Olmina D’Arienzo scova e conta verso per verso, non per gusto nozionistico ma per riprodurre la tavolozza che si è formata nel cuore di Anna.

Se l’inizio è nelle radici e nell’uscita tempestosa dal porto verso un oceano sperabilmente più tranquillo, le conclusioni del cammino sono nel timido ma deciso approccio alla scoperta dei raggi sole possibili ogni volta che le acque diventavano troppo gelide. Eppure si doveva pur sempre fare i conti con il suo cuore combattivo, pronto a trovare le luci nel buio, le primavere nell’animo, piccoli sogni realizzati. Un cuore deciso a vivere ancora una vibrante giovinezza della vita, a cercare tra le nebbie il suo tallone, a vincere la sua sfida perché lei, Anna, è fiera, è bella, è tosta.

Al centro di questo cammino e come humus fecondo, la poetessa ha inserito tutta la sua elettricità romantica che viene da lontano, dall’amato romanticismo classico di Catullo fino al doloroso apparir del vero di sapore leopardiano, in un cammino accompagnato e illuminato dalla forza dell’immaginazione, che le nasce da dentro, soprattutto attraverso i rimpianti e le attese d’amore, in un’onda che si inabissa nel dolore della perdita e rinasce nell’esaltazione della riscoperta. E compagna, sempre romanticamente, le è la natura, nelle sue meravigliose vibrazioni tonali che si sposano con gli stati d’animo del momento. Su tutto, il mare, quello amniotico della sua terra e quello accogliente delle coste croate, fonte di vita nuova e nuovi porti, dove il nero delle cadute è sostituito dall’azzurro di occhi nuovi che guardano lei e con cui sta ripennellando il suo mondo. E il naufragar le è dolce in questi mari…

E… naufragando naufragando… e creando uno strano ma intrigante gioco di parole, possiamo immaginare che lei possa dire una frase del genere: “Levo panna (come si faceva dal latte una volta, dal latte si scrostava la copertura di panna mostrando l’anima bianca del liquido), dal mare decollo col mio naveplano (il veliero dell’immaginazione, della fantasia e del sentimento) e volo verso atomi di azzurro”. Frase troppo strana? Mica tanto, se pensiamo che levo panna e naveplano sono anagrammi di Anna Volpe e Atomi è l’anagramma di Ti amo

Giochi di parole a parte, tutta questa congerie di emozioni in qualche modo è venuta fuori sia dal libro che dalla serata. Si è creato una specie di caminetto affettuoso che ha coinvolto tutti, nell’emozione di un abbraccio che comunque si è rivelato lungo una vita, tale che ad un certo punto non c’era più posto nemmeno per il rimpianto. Infatti è stato scoperto il tesoro di tante conquiste vissute insieme, individualmente e da una generazione fortunata, di tante esperienze ed emozioni che anche le cose oramai perdute sono diventate fonte di bellezza perché comunque ci sono state.

E si è forse creato, per un’ora o forse anche molto di più, quel cerchio magico che unisce la percezione di amare e quella di essere amati e che, come dice Il Piccolo Principe, è la radice della felicità, o almeno di un momento di felicità.

Forse è proprio questo che abbiamo vissuto. Un momento di felicità. Custodiamolo bene oggi. Potrà comunque servirci domani…

ACCUMOLI-SALERNO. L’emozione della speranza ad Accumoli per la Casa della Cultura, donata grazie al salernitano MARIC. Presenti anche Antonio Tajani e Claudio Lotito

Come già preannunciato in un recente comunicato, venerdì 12 aprile ad Illica, frazione di Accumoli, completamente distrutta dal terremoto del 2016, è stata celebrata la cerimonia ufficiale della “posa della prima pietra” nella ”Casa della Cultura”, i cui lavori sono in fase già avanzata. Questo Centro Polifunzionale è stato donato alla comunità accumolese grazie alla raccolta di fondi promossa dal Maric (Movimento Artistico per il Recupero delle Identità Culturali), fondato e presieduto dall’artista salernitano Vincenzo Vavuso, che è anche un sottufficiale dell’Esercito Italiano e che dell’intera iniziativa, oltre che ideatore, è stato un motore inesauribile, un catalizzatore insostituibile, tenace e appassionato.

Perciò con giustificata soddisfazione personale, con la fierezza di presiedere un’associazione che ha bruciato le tappe, ma anche e soprattutto con l’orgoglio di chi vuole e sa rappresentare i valori più puri di un militare (la tenacia, lo spirito di servizio, il senso della collettività, la forza morale anche di fronte ai muri), si è potuto presentare in sgargiante divisa alla cerimonia.

Questa cerimonia, di alto profilo e qualità civica e morale, è stata patrocinata proprio dal Ministero della Difesa e per questo è stata allietata dalla banda del Primo Reggimento Granatieri di Sardegna dell’Esercito Italiano, guidata dal luogotenente Morlungo. Essa ha inoltre goduto della partecipazione di numerosissimi cittadini e alte autorità. Oltre naturalmente al Sindaco Stefano Petrucci, sono tra gli altri intervenuti Antonio Tajani, Presidente del Parlamento Europeo (che di suo ha donato ben diecimila euro) e Claudio Lotito, Presidente delle squadre di calcio della Lazio e della Salernitana.

Del resto, non va dimenticato che il M.A.R.I.C. fin dalla sua prima manifestazione pubblica (un’asta di beneficenza alla Mediateca Marte di Cava de’ Tirreni, organizzata col patrocinio del Comune e l’appoggio dell’Associazione Giornalisti “L. Barone”) si è potuto avvalere anche della vicinanza feconda e gradita del Presidente della Confindustria Vincenzo Boccia. E poi grazie a tante aziende italiane, ad istituzioni scolastiche, associazioni e alle singole persone che hanno voluto donare il loro contributo per il progetto della Casa della Cultura ad Accumoli, finalmente il traguardo è diventato vicinissimo.

Nel corso della cerimonia, le parole degli intervenuti hanno rafforzato il segno della rinascita e il senso di una primaverile giornata di speranza. In particolare, Antonio Tajani ha sottolineato la sinergia profonda tra istituzioni e cittadini, ben concentrata nella figura di Vincenzo Vavuso, che ha agito per l’occasione non solo nella sua qualità di militare, con tutti i valori e la tenacia di un militare, ma anche come Presidente di un’Associazione civile.

Ora, mancano solo pochi tasselli di vario genere al completamento dell’opera. Entro il mese di maggio la nuova Casa della Cultura sarà pronta, chiavi in mano. Si dovrà pensare anche ad un nome significativo. Facciamo una piccola proposta, che viene proprio da una stimolante conversazione con il Presidente. Dato che il simbolo di questo luogo sarà una scarpetta ritrovata tra le macerie proprio da Vincenzo Vavuso e che da questo luogo ripartirà un nuovo cammino di socializzazione e di recupero dell’identità per una comunità altrimenti a rischio di sparizione, perché non chiamarla proprio “La scarpetta”? In tal caso l’immagine della scarpetta potrebbe rappresentare anche un marchio permanente per ogni iniziativa collegata alla Casa della Cultura (mostre, rassegne, convegni, minifestival dell’Arte, etc…)…

Il nome sarebbe un viatico dell’anima, ma comunque la Casa sarà una realtà concreta, che potrà a buon diritto guardare “oltre le pietre”. E grazie ad essa Illica ed Accumoli avranno un motivo in più per sperare in una vita nuova.

CAVA DE’ TIRRENI (SA). Ancora un successo del Piccolo Teatro al Borgo, con le agrodolci risate di “Non ti pago”

Gran finale della stagione il 13 e 14 aprile con “La fortuna si diverte”.


non-ti-pago-piccolo-teatro-al-borgo-cava-de-tirreni-aprile-2019-mvivimediaSulla destra del palcoscenico, un grande e intrigante pannello, con una strana figura dal volto bifido, che a guardarla bene si è rivelata chiaramente un misto di Pirandello e Freud. Al centro e a sinistra, rispettivamente, un biglietto del Lotto con i numeri e una rappresentazione della Fortuna. Due terzi dalla chiara motivazione, ma quel “terzo terzo” così misterioso.

Molti spettatori si sono chiesti il perché di questa ambiguità per una commedia come “Non ti pago”, di Eduardo De Filippo, scritta nel 1940, unanimemente considerata tra quelle più comiche e “leggere”, per l’occasione messa in scena dal Piccolo Teatro al Borgo il 9 e il 10 marzo scorso nella Sala del vecchio Seminario in Piazza Duomo a Cava de’ Tirreni, nell’ambito della Rassegna Teatrale congiunta tra la compagnia di Mimmo Venditti e Arcoscenico di Luigi Sinacori.

A nostro parere, è stato un intrigante e provocatorio lampo di genio, utilissimo per aprire una finestra ad ampia visuale sull’anima più profonda di un testo che, nonostante la leggerezza e la comicità, ha tutto il peso di un dramma e di un amaro retrogusto di fronte al disincantato ritratto di famiglia in un interno ed ai refoli di social follia che vengono dall’esterno.

Certo, si ride tanto di fronte all’incaponirsi di don Ferdinando Quagliulo, titolare di un avviato Bancolotto e scalognatissimo giocatore, nel non voler liquidare il biglietto supervincente del suo dipendente Bertolini, superfortunato nelle sue puntate nonché aspirante alla mano della figlia proprio di don Ferdinando. Si sorride e si ride ancora di più di fronte al dialogo presunto col mondo dei morti a proposito dei numeri del Lotto: il defunto Papà di don Ferdinando voleva veramente dare i numeri a Bertolini o si è sbagliato credendo che in quel letto ci fosse suo figlio?

Ma c’è proprio tanto da ridere nel vedere realisticamente rappresentata una dipendenza pittoresca ma patologica dal gioco, come quella di don Ferdinando, disposto anche a passare le notti sui tetti come i gatti per avere” l’ispirazione” Una malattia vera e propria, raccontata anche da altri grandi della scrittura, come la Serao nel suo bellissimo “Nel paese di Cuccagna”? Ed è tanto rassicurante vedere messa a nudo la credenza popolare di maledizioni o benedizioni o imposizioni o vendette che vengono dai nostri cari estinti direttamente dall’aldilà?

E come facciamo a ridere di fronte a quell’impasto titanico di invidia e di aggressività che spinge don Ferdinando a calpestare, per un puntiglio, a mettere da parte le regole del gioco, a calpestare i sentimenti della figlia innamorata di Bertolini, a distruggere la pace della famiglia, a desiderare apertamente il male di un giovane di un giovane onesto, fortunato e innamorato?

Forse ci potremmo sentire un po’ sollevati quando ala fine egli dà il consenso alle nozze, ammette il suo amore per la figlia, rinuncia alla cessione del biglietto da parte del genero superaccidentato dopo (non necessariamente a causa) le sue tremende e totali maledizioni, ma scopriamo che la sua è stata anche una ripicca per essere stato colpito nella personale patriarcalità (il genero non gli ha chiesto il permesso di…). E ci rendiamo conto che i rancori esplosivi e più o meno sordi accumulati in tutto il tempo sono figli di una sostanziale incomunicabilità con i familiari. Era lui che si era posto come una montagna troppo alta da scalare o gli altri che non avevano i muscoli per farlo? Ma perché una figura potenziamente da amare si deve trasformare in una montagna da scalare?

Eppure, è vero che, investita storicamente di un’autorità padronale (oggi non avviene più, per fortuna, ma per sfortuna la cosa ha creato anche altri problemi..), la figura paterna ha generato con figli e consorte spesso conflitti feroci, da cui non è esente lo stesso don Ferdinando, sia pure in incontri-scontri tra l’al diqua e l’aldilà, con quel padre strapotente anche dopo morto. E il tutto non ricorda le drammatiche tematiche dell’incomunicabilità, dell’apparenza e dell’inferno della famiglia di pirandelliana matrice? E l’amaro che ci resta dopo tante risate non somiglia tanto all’umorismo pirandelliano, che svela il tragico attraverso il comico? E i conflitti con le autorità familiare non ci ricordano rabbie e rimozioni e sublimazioni di freudiano sapore?

Proprio tutto questo veniva sintetizzato e sottinteso da quell’immagine enigmatica ed emblematica freudian-pirandelliana che caratterizzava la scenografia, realizzata con sapienza e incisività da Giuliano Della Monica, ben supportata dalle luci di Bruno Rispoli e dai costumi di Annamaria Venditti. Tutto questo è stato commesso e fatto comprendere dalla messa in scena vivace, ottimamente “ritmata” e teatralmente coinvolgente realizzata dalla regia di Mimmo Venditti e dall’interpretazione sua e della sua compagnia, un bel mix di antiche volpi e fresche pecorelle felicemente pascolanti.

Mimmo è stato un magnifico e dominante don Ferdinando tragicomicamente odioso e “solo”, vissuto da lui sulla scia di un molieriano avaro di tanti anni fa portato in scena con un bel successo.

Il resto, decisamente all’altezza: una sanguigna ed empatica Rosanna Di Domenico, moglie, remissiva, materna e aggressiva al punto giusto un pimpante Raffaele Santoro al top della forma, avvocato di comica ironia ma anche di cinico opportunismo leguleico, un convincente Matteo Lambiase, sacerdote affidabile e accomodante ma non privo di furbesca diplomazia,; un disinvolto Carlo Della Rocca, il povero ricco fortunato disgraziato Bertolini, vittima dei giochi di potere del patriarca ma anche pronto ad una ribellione per giusta causa; il sempre brillante caratterista Roberto Palazzo, divertente Aglietello, uomo di fatica rassegnatamente fedele di don Ferdinando e complice delle notturne scorribande alla ricerca del numero perduto; l’espressiva Titta Trezza, una candida Stella, figlia subordinata ma con la forza dell’innamorata.

Applausi convinti anche per gli altri interpreti: Ida Damiani, Daniela Picozzi, Iolanda Lambiase (qui comprimarie ma in altri casi già brillanti protagoniste), Andrea Manzo e Raimondo Tanimi Adinolfi.

Insomma, uno spettacolo ben riuscito, che nella sua amatorialità ha dimostrato di poter comunque reggere la sfida su palcoscenici a più livelli. Ma questa per il Piccolo Teatro al Borgo non sarebbe una novità, ista la sua storia.

È uno spettacolo che rappresenta un bel viatico per l’ultima prova dell’anno: la Fortuna si diverte, liberamente adattata da Venditti su un testo del toscano Athos Setti, al quale si ispirò Eduardo per proporre il suo divertente Sogno di una notte di mezza sbornia. Gli attori La trama già di per sé è intrigante. Don Pasquale Grifone, ancora immerso nei fumi dell’alcool, sogna Dante Alighieri che gli dà dei numeri da giocare al Lotto, aggiungendo che rappresentano la data e l’ora della sua morte. Lui li gioca, vince… e comincia tremare e a “dare i numeri” pensando di essere veramente in procinto di morire. E allora… beh, per sapere cosa succede bisogna venire a vedere lo spettacolo e rimanere sospesi fino al finale… e magari anche dopo …