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Agenda 2019: un’agenda tutta da leggere
Curata da Ganriella Pastorino, sarà presentata l’11 dicembre a Palazzo di Città
CAVA DE’ TIRRENI (SA). Martedì’ 11 dicembre, alle ore 18, nella Sala Consiliare di Palazzo di Città di Cava de’ Tirreni in Piazza Abbro, sarà presentata l’Agenda 2019, edita dalla Casa Edirice NoiTré, curata da Gabriella Pastorino e patrocinata dall’Associazione Giornalisti di Cava e Costa d’Amalfi “L. Barone”. Dopo i saluti del Sindaco di Cava de’ Tirreni Vincenzo Servalli e del Presidente dell’Associazione “L.Barone” Emiliano Amato, e l’introduzione del conduttore l’opera sarà introdotta dal conduttore dalla curatrice Franco Bruno Vitolo e poi presentata dalla curatrice del volume, Gabriella Pastorino, con le voci recitanti di Margherita Amato e Pasquale Di Domenico.
L’Agenda, giunta ormai alla dodicesima edizione, ha una sua assoluta originalità. Infatti, è una vetrina per poeti, scrittori e creativi del nostro territorio e nello stesso tempo apre continuamente finestre sulla Letteratura e sull’Arte di ogni tempo e luogo e su tematiche dal sapore universale, come la Pace, la Giustizia sociale, il rapporto con se stessi e col mondo, i sentimenti di varia natura che si agitano nel nostro cuore, a cominciare dall’Amore, inteso come affetto, attrazione e pulsione di fraternità.
Non a caso l’autore che fa da filo rosso a questa edizione è il grande poeta latino Ovidio, colui che ne L’arte di amare ha donato un manuale spiritoso ed anche utile e nelle Metamorfosi ha raccolto in versi coinvolgenti e avvolgenti i principali miti dell’antichità, quelli legati ad una trasformazione iniziale e finale. E, significativamente, l’apertura di gennaio è consacrata ai celebri versi di Talil Sorek, “Ho dipinto la Pace”, al mito di Apollo e Dafne esaltato da D’Annunzio come un grande soggetto cinematografico, alla presentazione delle Metamorfosi come “insieme del raccontabile tramandato”,al la grande storia di Amore e dolore di Orfeo e Euridice evocata dal poeta Dino Borcas… e il 31 dicembre si chiude con il famoso monito di Wilde: Lo spreco della vita è nell’amore che non si è saputo dare e nel potere che non si è saputo utilizzare.
Insomma, un’Agenda da sfogliare ed appuntare come si conviene, ma anche e soprattutto una compagna da tenere sul comodino: un’Agenda tutta da leggere.
Spade, rock e amore, il primo romanzo di Stefania Siani: un secolare fantasexy d’azione carico d’amore. Sarà presentato il 6 dicembre a Palazzo di Città
CAVA DE’ TIRRENI (SA). Giovedì 6 dicembre 14 settembre, alle 18,30, nella Sala del Consiglio del Palazzo di Città di Cava de’ Tirreni, in Piazza Roma, sarà presentato il romanzo Spade, rock e amore, (Gaia Edizioni), di Stefania Siani, alla sua opera prima in prosa e finora conosciuta come emergente e pluripremiata poetessa, oltre che appassionata esecutrice di rock moderno. Dopo i saluti e gli interventi del Sindaco di Cava de’ Tirreni, Vincenzo Servalli, del Presidente dell’Associazione Giornalisti di Cava de’ Tirreni e Costa d’Amalfi “L. Barone” Emiliano Amato, di Francesco D’Amato, editore del libro, il conduttore Franco Bruno Vitolo, che è anche editor e prefatore del romanzo, presenterà l’opera e converserà con l’autrice. L’accompagnamento musicale sarà affidato al Gruppo Rock Acustic, formato dalla stessa Stefania Siani, cantante e batterista, da Gennaro D’Aniello, chitarrista, Gaetano Carpentieri, bassista.
In tema con le tematiche del romanzo, il Gruppo Folkloristico I cavalieri del giglio eseguirà delle movenze in costume medievale.
Il romanzo si può definire un Fantasexy secolare d’azione carico d’amore.
Infatti, presupponendo un immaginario, ma non impossibile, DNA della memoria che attraversa le generazioni, esso racconta delle storie parallele e convergenti, le une ambientate nella suggestione dei castelli delle Fiandre, le altre, di epoca contemporanea, ambientate nelle stesse Fiandre, in Italia, soprattutto Sicilia, in Irlanda, negli Stati Uniti, con un prologo addirittura in Russia.
Le prime hanno come protagonisti dame e cavalieri medievali, le seconde degli affermati cantanti e musicisti rock, insieme con delle ragazze creative di alto livello nella pittura e nella musica. Tra i protagonisti e quelli di oggi esiste, come già detto, un filo di discendenza generazionale che condiziona quasi tutte le vicende.
Queste si svolgono tra intrighi, misteri, inganni, scontri e soprattutto tanti incontri d’amore, in cui l’attrazione fisica, descritta a tinte caldissime, si sposa costantemente con l’affetto e il sentimento.
Il romanzo si snoda a ritmo serrato con una scrittura scorrevole e coinvolgente e alla fine vola ben oltre l’azione pura. Infatti evidenzia dei modelli di comportamento universalmente “cavallereschi”, che propongono una seria riflessione sul nostro vissuto quotidiano, soprattutto nel campo delle relazioni amicali, fondate sulla lealtà e sulla reciproca fiducia, dell’emancipazione femminile, esaltata attraverso i personaggi principali, e dell’amore, in cui la passione anche nelle sue forme più alte e stordenti non va mai disgiunta dal rispetto assoluto della persona. Così il piacere e l’amore diventano una cosa sola… e il piacere diventa veramente piacevole.
“In nome del figlio”, secondo spettacolo dell’Autunno teatrale di Arte Tempra
Un’epopea della maternità in nome della donna.
Ombre danzanti di mani, di braccia, di corpi lentamente si stringono al centro, accompagnate da una musica avvolgente e dolcemente intensa, fino a creare un unico corpo, come di un albero ricco di rami e di frutti. Quelle ombre idealmente prenderanno corpo e anima per diventare madri inquiete, madri gioiose, madri disperate, madri egoiste, mogli amate e amanti, figlie amanti ma forse poco amate, donne in lotta col mondo. Comunque, donne. Donne che raccontano se stesse e raccontano la donna.
E sono state due ore di spettacolare emozione quelle offerte dalla magnifica squadra di attrici del Gruppo teatrale “Arte Tempra”, nella seconda pièce della Rassegna 2017-2018, “In nome del figlio”.
Giuliana Carbone, Brunella Piucci, Luciana Polacco, Manuela Pannullo, Lella Zarrella, Martina Cicco, Antonietta Calvanese, Maria Carla Ciacio, Carolina Avagliano, Danila Budetta, dirette a mano ferma da Clara Santacroce con il suo comunicativo espressionismo e con le sue classiche distoniche armonie, grazie anche alla bellissima atmosfera scenografica creata da Renata Fusco, ci hanno regalato uno degli spettacoli di maggiore respiro e coinvolgimento emozionale della pur ricca storia ventennale dell’Arte Tempra. Tanti frammenti d’autore e d’autrice (da Oriana Fallaci a Erri De luca, da Gibran a Franca Rame, dalla Jodi Picoult a Jacopone…) per creare un’epopea “universale” della maternità, forma e figura di un’epopea della donna in quanto tale.
Le interpreti, prima che con le parole, hanno comunicato e parlato col corpo, con gli sguardi, con le increspature della voce, con i movimenti e le espressioni corali, il che ha colorato e chiarito la forza dei contenuti, tutti ad alto tasso di intensità.
Il cammino prefigurato dalla tessitrice Clara ha un profondo respiro culturale ed umano.
Dopo la formazione del già citato “albero della donna”, il primo frutto è l’accettazione in chiaroscuro della maternità dalla Lettera ad un bambino mai nato della Fallaci: quel bambino che alla madre (una Lella Zarrella convincente nella sua inquietudine) appare come una goccia di vita scappata dal nulla , generando una paura che bagna il volto e i pensieri… eppure quella goccia diverrà mare dolente nel suo cuore. La stessa maternità poi viene accettata e vissuta con gioia, ma la madre è pur sempre e solo una “signorina”, per cui la sua felicità va in contrasto con le ciniche reazioni dei maschi che la circondano e la invitano all’aborto: in questa nuova veste la protagonista” cambia volto, assumendo quello di Manuela Pannullo, incisiva e ironica nel raccontare questo scontro tra ottusità emotiva ed emozione del cuore.
Da qui si creano due fili rossi lunghi tutto lo spettacolo, all’interno dei quali si intrecciano altre storie significative. Il principale è il filo della maternità di Miriam, rimasta incinta come per una folata di vento, fuori dal matrimonio e non del suo promesso Joseph, e come tale passibile di punizione per adulterio. Ma Joseph, per amore, l’accoglie, la protegge, la sposa e la porta lontano a partorire l’amato bambino, che, se per la madre basta che esista, anche se avrà una vita anonima, vita anonima invece non avrà, perché quel bambino è Joshua- Gesù, il cui corpo martoriato sulla croce proprio Miriam-Maria dovrà abbracciare, con strazianti grida di dolore. E dalla giovane gravidanza di Giuliana Carbone-Maria, dotata però della grazia-forza di saper affrontare il mondo, al tragico lamento di Brunella Piucci-Maria sotto la croce, grazie alle parole poetiche di De Luca e Jacopone ed alla consolidata bravura delle interpreti, con annesso physique du rôle, il filo si dipana a frammenti sempre più incalzanti, coinvolgenti, emozionati ed emozionanti. Fino allo svangante finale, con le mani disperate di Maria tese verse in controluce verso l’alto, mentre sullo schermo affiora la moderna pietà di una madre migrante sulla spiaggia tesa verso il corpo del figlioletto appena spirato.
L’altro filo rosso è una proposta veramente intrigante, ispirata al romanzo dell’inglese Jodi Picoult “La custode di mia sorella”, da cui fu tratto anche un famoso film di John Cassavetes. La vicenda è incentrata sulla figura di Anna Fitgerald, programmata “geneticamente” per poter creare una fucina di “pezzi di ricambio” per la sorella Kate, gravemente malata di leucemia e bisognosa di continue operazioni. Il monologo, elaborato dalla sedicenne Martina Cicco con una maturità ed una misura ben superiori agli slanci dei suoi sedici anni, arriva al suo acme quando ad Anna viene chiesto dalla madre di offrire un rene e lei non solo si rifiuta, ma denuncia la famiglia.
E qui, anche attraverso un drammatico incontro-abbraccio-scontro- con la madre (la cui ambivalenza di affetto e prevaricazione ben traspare dalla recitazione di Antonietta Calvanese), viene a galla l’umanità del testo, che permette di vedere il mondo da più angolazioni, da cui si capisce che esistono gesti buoni e cattiverie, ma non persone in assoluto buone e cattive, perché ognuno ha le sue caverne rispettabili e umanamente comprensibili, in cui soffiano venti in tutte le direzioni. Proprio per questo, il romanzo originario ci propone la vicenda proprio da tutte le angolazioni (Anna, Kate, La madre) e, in un efficacissimo colpo di scena, ci fa capire che la custode vera non è Anna, ma proprio la malata Kate, che cerca di proteggere Anna al punto da suggerire lei la denuncia. Poi, alla fine, sempre nel romanzo, proprio Anna morirà in un incidente e il suo rene servirà a salvare la sorella…
Come stimolo e come intensità, non sono state da meno le storie intermedie.
Il suadente e giusto invito di Kalil Gibran, Il profeta, a tutti i genitori di lasciare liberi i propri figli, perché “sono solo archi che lanciano le frecce “i nostri figli non sono i nostri figli ma figli della vita”…
E la mamma migrante che nella sua disperazione di naufraga, efficacemente resa da Danila Budetta, cerca di rassicurare il figlio Farid con la favola del bambino che diventa grande, ma non potrà evitare il risucchio nel cuore nero del mare, per una morte che evoca la terribile immagine-icona di quel bambino migrante morto sulla battigia,
… E la giovane ragazzina dell’Est europeo (dolce e dolente nella bella interpretazione di Carolina Avagliano) che diventa madre per effetto della violenza reiterata di un uomo, ma conserva un disperato amore per il bambino e con lui compie il gesto estremo “di pesciolino nel mare”, ribellandosi alle pressioni della società e di chi la giudica semplicemente una puttana considerandola “inidonea” alla maternità.
E poi, lo straordinario monologo autobiografico di Franca Rame, vittima di uno stupro disgustosamente violento e “politico”, in cui Luciana Polacco, in posizione supina e inarcata, con i muscoli tesi fino allo spasimo, è riuscita a liberare dai precordi del cuore tutto l’orrore di “quella storia” e degli stupri e delle violenze di sempre contro le donne…
Alla fine, davanti al dolore ed alle braccia alzate di Maria, il cerchio del cammino si chiude, con la riformazione dell’albero della donna, della maternità, della vita. Della vita. Ma proprio in nome della sacralità della vita stessa, il cerchio non si può chiudere. Donna è amore di andare avanti…
Per tutto questo, il saluto finale è stato fatto con il volto serio, fissato in una maschera di pensoso dolore. Nessun sorriso, nessuna parola aggiuntiva. Solo l’invito silenzioso di portarsi a casa tutte quelle storie e di guardarsi dentro e intorno, per un empatico “sentire” dalla parte della donna… e magari diventare goccia di un mare futuro in cui le cui acque siano fatte di rispetto e di amore. “In nome dei figli”, ma anche del nostro essere umano… e cercando una buona volta di essere umani …
Piccolo Teatro al Borgo e Arcoscenico: due compagnie diverse, un unico cartellone!
Il 17 e 18 novembre il debutto: “La voce rotta di Napoli”, con regia di Luigi Sinacori.
Questo matrimonio s’aveva da fare …
La citazione manzoniana calza proprio a pennello perché è stato veramente “da Zorro” il segno lanciato dal cartellone teatrale congiunto dello “storico” Piccolo Teatro al Borgo di Mimmo Venditti(circa mille e quattrocento spettacoli, in Italia e anche all’estero!) e della ancora giovane Compagnia Arcoscenico di Luigi Sinacori. Quest’ultimo, a dire la verità, sia pure con nomi e compagini diverse, ha già un discreto avvenire dietro le spalle, con una decina di lavori scritti o diretti ed una quarantina di repliche come attore, ma non ha ancora trent’anni e sta in fase di montante, positiva maturazione.
Dicevamo della forza del segno: crediamo che sia la prima volta che due compagnie, diverse tra loro e operativamente autonome, uniscono i cartelloni, in reciproca sinergia. Il che già è significativo, in un ambiente, come quello cavese (ma certo non solo cavese…) in cui, soprattutto nel settore cultura e spettacolo, ognuno si cura il suo orticello personale senza creare sinergie né osmosi e solo per eccezione l’uno si fa spettatore dell’altro.
La cosa è ancora più significativa perché, pur essendo tecnicamente alla pari nella distribuzione degli spettacoli, il Piccolo Teatro al Borgo di fatto ha realizzato un’importante operazione chioccia. Ha messo a disposizione la propria struttura e collaborazione per le prove e le riunioni, ha offerto visibilità e prestigio, ha aperto la porta a reciproche partecipazioni straordinarie nelle pièce, ha lasciato adombrare anche un eventuale spettacolo realizzato in comune.
Questo non si fa se non si ha fiducia in un gruppo e nelle persone che lo rappresentano. E Luigi e i compagni di Arcoscenico questa fiducia se la meritano tutta, per la passione e la qualità di partenza e la voglia di migliorarsi che manifestano.
Questo non si fa se non si considera il teatro come un campo che non può essere arato e seminato solo un contadino o da un gruppo ristretto. E Venditti da sempre ha sognato e operato per la nascita a Cava di una sala teatrale “vera” e di una sinergia organizzata tra le varie compagnie. Sogno spesso vanificato da fattori ora politici, ora economici, ora semplicemente culturali, ora dalla difficoltà di frenare i protagonismi e far tenere per mano i singoli protagonisti.
Tornando al cartellone comune, esso presenta dieci pezzi, cinque del Piccolo Teatro al Borgo, come sempre legati alla tradizione classica napoletana ma sempre con significativi tratti di originalità e saporiti spruzzi di “vendittismo” (come il prossimo “Costretti a fare Miseria e Nobiltà”, sabato 1 e domenica 2 dicembre). Arcoscenico parte anche da testi consolidati, ma punta alle opere autoprodotte, o con rielaborazione scenica oppure in toto originali e firmate Sinacori, come in quello che finora è il loro lavoro più incisivo, più emozionante e più maturo, Hope fame di vita, che ha esordito la scorsa estate e tornerà in scena il 19-20 gennaio prossimi.
Ed è venuto il gran giorno della partenza: 17 novembre nel Teatrino dell’ex Seminario, in Piazza Duomo.
Luigi Sinacori, Mariano Mastuccino, Gianluca Pisapia, Anna D’Ascoli, Licia Castellano, Federico Santucci, Maria Fiungo, Francesca Cretella… Arcoscenico ha debuttato con La voce rotta di Napoli, incentrato sulle sofferenze e le contraddizioni di una città unica che è tutto e il contrario di tutto, in un collage “sinacorizzato” di pezzi storici, con dominante Eduardo de Filippo, accompagnato da Viviani e Moscato e armonizzato dalle belle musiche della palummella che zompa e vola e della carta sporca di pinodanieliana memoria.
Si tratta di un lavoro di impegno etico e civile, meritorio già per la scelta dei contenuti, ben diversi dagli occhiolini farseschi che nelle precedenti opere di Sinacori diluivano in parte proprio gli spunti più impegnativi e provocatori (la corruzione, la dittatura, l’ipocrisia politica e familiare…). Ma ora Luigi e Arcoscenico sono finalmente impregnati di “Hope” e del salto di qualità che essa ha rappresentato e che ha permesso a loro di fare anche “un salto di hope” rispetto al cammino sognato.
Le prime scene di La voce rotta di Napoli hanno confermato questa volontà e capacità di impegno e di incisività. In apertura, l’avanzata verso il patibolo di una donna dileggiata dalla folla (un richiamo a Eleonora Pimentel Fonseca o a Luisa Sanfelice ai tempi della rivoluzione del ‘99), al ritmo di quella Palummella zompa e vola che in un bel film con Eduardo (Ferdinando Re di Napoli) simboleggiava il sogno della libertà di un pulcinella “ribelle”, che qui, diversamente dal film, poi finisce con l’essere stroncato ed ucciso dal potere, nonostante “non possa essere ucciso perché Pulcinella non muore mai”. Le caverne di dolore del popolo si sono aperte anche negli altri due episodi: l’uccisione, nel secondo dopoguerra, di un “soldatino senza mani”, presunto collaborazionista vista con gli occhi e la presenza di un gruppo di prostitute colte in tutta la forza della loro umanità, con lo stile espressivo in cui è maestro il buon Enzo Moscato.
Poi, in scena un mortale incidente sul lavoro e le sabbie mobili che si aprono nella famiglia della povera vittima: un testo dolente ed intenso, gravido di empatica umanità, interpretato, in un felice “cammeo da connubio”, da un Mimmo Venditti altrettanto dolente, intenso, gravido di empatica umanità, come del resto è nelle sue corde sceniche, sempre pronte a ruotare a trecentosessanta gradi ed a creare ponti con il pubblico.
Nella seconda metà, tutto Eduardo, prima con una comunicativa lettura teatrale della bellissima epopea terra-cielo di De Pretore Vincenzo, con quel ladro accolto in Paradiso, quella simpatia per i più deboli e quella umanizzazione di Dio&Co. che tante polemiche suscitarono a suo tempo nella bigotta Italia anni Cinquanta. Finale con pillole di pensiero eduardiano, con l’azione teatrale che cede il passo all’evocazione di frammenti tratti dalle sue dichiarazioni e dalle sue interviste, con gli attori che a turno si alzavano da una sedia su cui erano seduti di spalle. Tra queste pillole, il famoso e terribile “discorso di Taormina”, in fin di vita, sul gelo umano da lui qualche volta creato nel teatro e col teatro.
Su questa rappresentazione di Napoli e della sua poliedricità si è chiuso lo spettacolo… e se ne è aperto un altro, con Sinacori e Venditti pronti a esaltare la loro “luna di miele” ed anche, perché no?, a difenderla…
In questi simpatici e chiacchieronici e ancora teatrali siparietti finali ai quali ci ha abituati, Venditti lascia sempre la scia di un palco dal volto umano… che poi è l’essenza stessa del teatro.
Era bello vedere sul palco il simpatico flirt tra Venditti e Sinacori, perché si sentiva che forse erano, e sono, i testimoni di una staffetta teatrale che ora comincia solo ad affiorare, anche perché per fortuna il PTB è ancora lontano dal cedere il testimone. Ma, se Venditti e i suoi rappresentano il passato ed il presente futuribile del teatro cavese, forse Sinacori e gli Arcoscenici stanno veramente prendendo la rincorsa per essere spicchi del presente e pezzi importanti del futuro. Il tutto, magari in una Cava dove, dopo le epopee del Teatro Verdi, finalmente potremmo smettere di essere al verde di un teatro…
È stato un debutto che promette interessanti sviluppi. E, anche se più che un matrimonio sembra ancora solo una gradevole convivenza, è probabile che questa “coppia di fatto” faccia dei figli sani… e induca anche altri gruppi ad unirsi. E magari ne venga fuori una “comune”, finalmente …
Insomma, questo matrimonio s’aveva proprio da fare …
Bravi!
Ma qui Manzoni non c’entra più …