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Rileggiamo Talora nell’arsura della via del poeta Camillo Sbarbaro tra sorprendenti affermazioni: “Basta con Verga”, “ Leopardi non è un poeta” !

Mi verrebbe da dire, un po’ polemicamente, alzi la mano chi “conosce” il poeta Camillo Sbarbaro. Quanti sono coloro i quali hanno letto le sue poesie, “sanno” della sua poetica, del suo vivere “sofferto” e molto vicino a noi più di quanto si possa credere. Eppure in questi giorni, “qualcuno” ha riscoperto una sua poesia,” Talora nell’arsura della via” dall’apparente tema in sintonia con l’opprimente caldo di questa nostra estate. Ma questa poesia è molto, molto altro e di più e di un attualità sorprendente benché scritta più di cento anni fa (1914). Testo notevole nel nostro Novecento Italiano egemonizzato in quegli anni da un Dannunzianesimo dilagante.

Talora nell’arsura della via

Talora nell’arsura della via
un canto di cicale mi sorprende.
E subito ecco m’empie la visione
di campagne prostrate nella luce…
E stupisco che ancora al mondo sian
gli alberi e l’acque
tutte le cose buone della terra
che bastavano un giorno a smemorarmi…
Con questo stupor sciocco l’ubriaco
riceve in viso l’aria della notte.
Ma poi che sento l’anima aderire
ad ogni pietra della città sorda
com’albero con tutte le radici,
sorrido a me indicibilmente e come
per uno sforzo d’ali i gomiti alzo…

(da Camillo Sbarbaro “Pianissimo” Edizioni La Voce, Firenze 1914)

Camillo Barbaro, poeta dallo stile asciutto, secco, lontano, molto lontano da qualsiasi  compiacimento estetico, qualsiasi retorica letteraria. Stile quasi subìto dal poeta anche al di la della sua stessa volontà e consapevolezza; si sentiva quasi “costretto”  a scrivere “quel qualcosa” che gli urgeva dentro. Stile che meglio non avrebbe potuto rappresentare la sofferta presa coscienza del dolore di vivere, sofferta crisi esistenziale che attanagliò il suo animo come quello di un altro grande poeta ligure Eugenio Montale. Il poeta, l’uomo deve smemorasi per continuare a vivere come in questi splendidi versi.

Per una sintetica analisi connotativa del linguaggio, proporrei di dividere questa poesia in tre strofe di cui le prime di quattro versi ciascuna: tutte e tre le strofe terminano con l’uso della figura retorica della Reticenza ovvero i puntini sospensivi sostituiscono quanto è facilmente intuibile. Tre pure sono le Similitudini presenti ai vv.9/10, v.13 e vv. 14 e 15 laddove in ”i gomiti alzo” può riscontrarsi l’uso della Sineddoche.

Nel confronto col linguaggio denotativo, la poesia sembra scindibile in due atmosferiche poetiche: la contrapposizione tra Città e Campagna e la contrapposizione tra Realtà e Sogno, il tutto legato da un anello di congiunzione che è dato dalla funzione del Tempo.

La Città è rappresentata da “arsura della via”, “ ad ogni pietra della città sorda”. La Campagna invece da “un canto di cicala, “ visione/di campagne prostate nella luce”, “ gli alberi e l’acque/tutte le cose  buone della terra”, “ l’aria della notte” , “com’albero con tutte le radici”. Come si può intuire hanno valenza negativa: l’arsura e la sordità della città, mentre valenze positive hanno il canto di cicala, la luce delle campagne (laddove , in campagna, diventa luce quello che nella vita cittadina è arsura); gli alberi e l’acque (contrapposte quest’ultime all’arsura della via e la pietrificazione della città sorda contrapposta al muoversi dell’albero con tutte le radici); il termine sorda poi chiama in antitesi “il canto di cicala”.

La sfera poi del Reale e del Sogno è data dai vv. 1/2 (Reale) contrapposti ai vv.3/4 (Sogno-Visione) e ancora i vv.11/12 (Reale) contrapposti ai vv.13/15 (Sogno). L’anello di congiunzione, dicevo, è dato dalla presenza del Tempo espresso in voci inequivocabili: dal “Talora” inteso come: a volte accade che… si passa al “Subito” in contrapposizione a quanto prima accaduto, attraverso “l’ancora” e “Un giorno”  (squisitamente riflessione- sensazione temporale) al “poi” finale per una decisione che non lascia possibilità di dubbi: volare come un uccello pur sentendosi un immobile albero, volare sradicando dal suolo le proprie radici che sanno di prigioni.  

E’ questo dolore per ciò che fu e non è più, per quanto l’uomo con la sua “civiltà” la sua urbanizzazione, sta togliendo a se stesso, per un recupero non nostalgico né estetizzante  della natura, per un afflato umano con “tutte le cose buone della terra” che fa di questa poesia una “nostra” attualissima poesia, cosi travagliati da questa società contemporanea che sembra distruggere irrimediabilmente “gli alberi e le acque” (come sta a dimostrare lo stravolgimento meteorologico di questi anni, dal caldo siberiano, alla desertificazione di ampie parti del pianeta, allo sciogliersi dei ghiacciai con disastrosi fenomeni alluvionali, …) e “tutte cose buone della terra” quelle cose che “bastavano un  giorno a smemorarmi” . Smemorarsi, attenzione, non perdita della memoria, ma recupero di memoria storica e psicologica attraverso l’identificazione con la Natura (uomo compreso) affinché il nostro vivere non sia o diventi vivere “da ubriaco” annebbiati dall’alcool del presunto benessere moderno, e lo”stupore sciocco”per l’improvvisa , ormai sconosciuta, salutare “aria della notte” sul viso. Sentirsi “alberi con tutte le radici” pronti al volo e non lasciare che l’anima aderisca “ad ogni pietra della città sorda”.

*****“Basta con Verga”. “ Leopardi non è un poeta” !*****

Certamente il tema centrale di questa poesia non è il caldo eppure credo che un caldo eccezionale possa anche contribuire ad alcune esternazioni molto, molto discutibili:

Basta insegnare Verga nei licei, non ne possiamo più. Si legga piuttosto il mio “Va dove ti porta il cuore” ha sentenziato la scrittrice Susanna Tamaro (23 maggio c.a.). Inattuale Verga? Non direi proprio. Basterebbe solo ricordare il racconto Rosso Malpelo per un doloroso confronto con il detestato fenomeno del bullismo.

E un paio di anni la poetessa Patrizia Valduca, compagna per molti anni di un altro poeta, Giovanni Raboni, affermò: “Leopardi, è stato un filosofo, un bravo filosofo, ma certamente non è stato un poeta! Era troppo intelligente per essere un poeta, un poeta deve essere stupido ogni tanto e lui non lo era. Scriveva in prosa e poi andava a capo…” “ Descrivendolo così: “Un gobbo di un metro e quaranta che mangiava solo gelato invidioso di Monti”. Offensiva, terribile gratuità!

E per sostenere la tesi che Leopardi non è un poeta, declamò alcuni versi del “L’Infinito” confrontandoli con alcuni versi di una poesia di Pascoli, “L’Aquilone “ concludendo tout court : “Ecco questo è un poeta vero! Poverino Leopardi voleva intensamente essere un poeta ma …. “ Fatta salve l’opinione di ciascuno, mi sembra poco ortodosso da parte della poetessa Valduca mettere a confronto due poesie, scritte l’una nel 1819 (Leopardi aveva 21 anni) con l’altra scritta nel 1897 (Pascoli aveva 42 anni) dimenticando, forse, “la Stessa” che tra le due composizioni vi è uno spazio temporale di circa 80 anni. E che anni: l’intero Ottocento! Ed è proprio certa la Signora Valduca che la lezione del “mancato” poeta Leopardi ” non sia “servita” al “vero” poeta Giovanni Pascoli?

Amara conclusione: se la nostra Letteratura si appresta ad essere scritta e riscritta da “simili autori”, allora prenderò a leggere i romanzi di Liala e brucerò interi tomi di critica letteraria.

Per il Giorno della Memoria

Voi che ancora avete occhi
ditemi
che fu vista partire
su stridere d’ossute rotaie cariche
di giovani increduli lamenti
dietro cime di estreme ultime paure
ditemi che non ritornerà
nelle notti senza luna
che mai più riderà domestica iena
tra stupiti innocenti latrati.

Ditemi
che ancora sarà gioia aspettare
l’alba su guance serene
che è tempo di nuovi sguardi
per occhi di pianto
fattosi crudele fratello.

Antonio Donadio

NdR: da Italian Poetry La Poesia della settimana: Donadio del 30 gennaio 2023

Natale 1809. “I RE MAGI” del giovane Leopardi

Mi piace condividere con i nostri lettori questo avvincente articolo tratto ancora una volta dall’autorevole Blog de “Italian poetry” a firma del sempre brillante nostro collaboratore, il poeta e critico Antonio Donadio, che questa volta si è soffermato su un’opera giovanile di Giacomo Leopardi quando il grande poeta aveva solo undici anni. Si tratta di un lungo poemetto che ha per tema I Re Magi. Un giovanissimo Leopardi che si potrebbe definire “cristiano”.(ndr)


Recanati 1809. Tra gli scritti del giovane Leopardi spicca per semplicità, fervore devozionale e sforzo di documentazione storica, in endecasillabi sciolti, un poemetto intimista di grande valore autobiografico: “I Re Magi”. Dalle Lettere sappiamo che in casa del Conte Monaldo Leopardi, in occasione del Santo Natale, si svolgeva l’annuale rappresentazione che coinvolgeva tutti i figli, anche i più piccoli. Per il Natale del 1809 il primogenito, battezzato Giacomo Taldegardo Francesco Salesio Saverio Pietro, presenta al padre alcuni suoi scritti come il padre reclamava. Opere non paragonabili alla grande stagione leopardiana, ma molto interessanti anche per il genuino spirito cristiano che le anima e che ci mettono a nudo qual era il vissuto religioso di casa Leopardi. Ci parlano dell’ambiente, del sistema educativo e della formazione poetica e religiosa dell’adolescente. Proprio in quello stesso anno, il 9 aprile, Giacomo aveva ricevuto la Prima Comunione. “Egli in quegli anni, scriverà il fratello Carlo ad Antonio Ranieri, amava molto anche le pratiche religiose. Si divertiva solo molto impegnamente con l’altarino. Voleva sempre ascoltare molte messe, e chiamava felice quel giorno in cui aveva potuto udirne di più”.

Per quel Natale, Leopardi scrisse, oltre al poemetto “I Re Magi” anche “Per il Santo Natale. Canzonetta”, quattro quartine doppie di settenari sciolti, e un breve brano di prosa: “I Pastori, che scambievolmente s’invitano per adorare il nato bambino”. Del poemetto è lo stesso Leopardi che nel fare, in seguito, un “Indice delle opere giovanili ” ci informa: ” I Re Magi. Poemetto letto, ed approvato dal fu marchese Tommaso Antici mio zio Materno ex Card. di S.R.C. il quale rimandommi il Poemetto con questi versi: “O dotto Figlio di più dotto Padre/Segui il cammin che a somigliar t’invita/Quegli al sapere alla pietà di Madre”. “I Re Magi” è diviso in tre canti. Il primo canto apre con la descrizione della capanna e di una prodigiosa primavera. Apparizione della stella, la meraviglia dei Magi e la decisione di andare ad adorare il divino Infante: “ De’ Regi Baldassar, Gaspar, Melchiorre/ scuotesi la sapienza, e sono anch’essi/del fulgid’astro indagatori ansiosi:/Celeste lume a rintracciar li porta/su le sacrate carte il ver nascosto, /già vi passan le notti, e i giorni interi, /e ormai son certi che di un Dio fatt’uomo/in terra sceso sia cotesto un segno”. S’incamminano preceduti dalla stella. Con l’inizio del canto secondo, i re Magi giungono a Gerusalemme: “Già di Gerusalemme l’ampia cittade/a lor si mostra torreggiante, e bella/lieti affrettano il passo, e par, che in seno/il bel desìo s’aumenti, e il santo amore”. La stella scompare. Chiamati, si presentano ad Erode: ”Erode l’empio, che sul soglio assiso/tetrarca altero, e odioso, aspro tiranno/la Giudaica nazion regge, e governa/stupisce anch’egli, ed i Regnanti ignoti/a se d’innanzi chiama, essi ubbidienti/volgono il passo a la magion superba”. Ripartono. La stella ricompare. Giungono alla Capanna: “Così dicendo a la rural cappanna/volgono il passo, e fra timore, e speme/v’entrano umili. Il venerato Nume/giace Bambin: l’Immacolata Madre/Benigna, e tutta amor gli accoglie, a terra/piegan’essi il ginocchio, e l’aureo scettro/posan sul suolo, e dal canuto capo/traggono riverenti il lor diadema.“Adorano il Bambino e offrono i ricchi doni: “Spingon le braccia, ma il pudore umile/dubbiosi li rattien, vincono alfine/ogni timore, e un amoroso bacio/stampan sui piedi del Bambin celeste e poscia/offrono quindi i ricchi doni, e poscia/tornan gl’inchini a rinovar devoti”. Ripartono. Canto terzo. Consiglio dei Demoni. Erode è furibondo. Un angelo avverte Giuseppe di fuggire e i Magi a non ripassare per Gerusalemme. che infatti tornano per un’altra via. Fuga della Sacra Famiglia: ”Giuseppe intanto il Redentor Bambino/seco recando, e insiem la casta, e santa/Immacolata Madre esce ubbidiente/da la cappanna umile/ e a pari ignote/ rivolge il passo; il cenno sovrumano/ così comanda e d’ubbidir fa d’uopo.”. Il canto, e con esso il poemetto, si chiude con la strage dei neonati: “Ma quai gemiti oimè, quai pianti, e strida/…. Barbaro Erode! I desolati pianti/non muovono il tuo cuor, fermo tu resti…”.

Nessuna meraviglia per i motivi ispiratori di quest’opera; argomenti sacri ma ammantati di atmosfere quasi fiabesche in cui il giovanissimo Giacomo, come scrive Maria Corti, cui si deve la riscoperta e la pubblicazione, nel 1972, delle opere giovanili (1809-1810) del poeta: “S’immerge, con cerimoniosa effervescenza, talora con grazia ingenua e infantile, come se il ragazzo fosse di fronte a una bella e illustre favola, che lo attrae e invita a scrivere”.

Seppure ad una lettura superficiale “I Re Magi” appaiono come un poemetto che non esce dai confini di una buona esercitazione poetica con qua e là sprazzi di versi emozionanti, considerare queste opere giovanili di Leopardi, come semplici curiosità sarebbe un grave errore. Si tralascerebbe un quadro d’insieme che permette, in un più ampio discorso storico-letterario, di conoscere i prodromi della futura grande poesia leopardiana. Segnali della predestinazione alla poesia e come tali con estrema discrezione indagati; evitare il condizionamento del continuo giudizio comparativo nei riguardi della grande sua poesia, operazione che sarebbe antistorica e impietosa. Infatti, scrive ancora Maria Corti: “Uno studio sistematico su fatti fonetici e morfologici dei testi 1809 /1910 rivelerà sia la presenza di consuetudini formali della scuola dei Gesuiti [ ] sia la persistenza di forme antiche, tramandate dalla lingua poetica.” E quanto importante fu, in quegli anni per il giovanissimo poeta, l’insegnamento del gesuita Don Giuseppe Torres, fu lo stesso poeta a sottolinearlo: “A lui debbo la mia educazione, i miei principi, e tutto il mio essere di cristiano e di galantuomo”. Radici di una cultura classico-arcadica che diverranno, in seguito, elementi essenziali per la sua futura trasformazione ideologico-letteraria. E quale segno lasceranno quegli anni di fervente ammaestramento religioso? Ne dà una risposta – negativa- lo stesso Leopardi a vent’anni quando nello Zibaldone scrive: ”Quanto anche la religion cristiana sia contraria alla natura, quando non influisce se non sul semplice e rigido raziocinio, e quando questo solo serva di norma, si può vedere per questo esempio. Io ho conosciuto intimamente una madre di famiglia (sua madre) saldissima ed esattissima nella credenza cristiana, e negli esercizi della religione. Questa non solamente non compiangeva quei genitori che perdevano i loro bambini, ma gl’invidiava intimamente e sinceramente, perché questi erano volati al paradiso senza pericoli [ ] .”

Ma in contrapposizione a tale assunto emergono tanti altri momenti in cui verrà fuori un Leopardi diverso: certamente non tale da potersi definire “poeta cristiano”, ma non molto lontano dall’idea di Dio. Ne è ad esempio il canto “Aspasia” ove la bellezza femminile appare indice di una presenza divina: Raggio divino al mio pensiero apparve, / donna, la tua beltà”; la bellezza femminile – da motivo stilnovista- come ” messaggio” per guardare oltre il terreno alla ricerca della perfezione, dell’infinito o come in “Alla sua donna”: “Se dell’eterne idee / l’una sei tu cui di sensibil forma /sdegni l’eterno senno esser vestita”. Ma ancor di più, quanto scritto nello Zibaldone che alla religione ha dedicato ampie e articolate riflessioni: “La maggior felicità possibile dell’uomo in questa vita, ossia il maggior conforto possibile, e il più vero ed intero, all’infelicità naturale, è la religione”. Ma sempre in lui costante sarà il dubbio: nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”:ove tende / questo vagar mio breve o in “A se stesso”, dove in pieno scoramento, senza null’altro attendere e sperare, gli appare svanita per sempre ogni sete di verità: Non val cosa nessuna / i moti tuoi”. Solo l’anno dopo, il 24 dicembre, Leopardi in una lettera indirizzata al padre si scuserà per non aver scritto nulla, nessun “libercolo”, per le festività natalizie, perché aveva poco tempo preso ad occuparsi di “opere più vaste”: “ ardii intraprendere opere più vaste, ma il breve spazio, che mi è dato di occupare nello studio, fece che laddove altra volta compiva i miei libercoli nella estensione di un mese, ora per condurli a termine ho d’uopo di anni. Quindi è che malgrado le mie speranze, e ad onta del mio desiderio, non mi fu possibile di terminare veruno di quelli, che mi ritrovo aver cominciati”. Stava iniziando la grande stagione dei Canti. Periodo questo che Leopardi definirà “il miglior tempo ch’io abbia passato in mia vita, e nel quale mi contenterei di durare finch’io vivo”.

In notti senz’albe a far notte ancora …

Ringrazio e ricevo questi versi augurali dal nostro Antonio Donadio estendendoli a tutti i nostri lettori per giorni pieni di luce. (ndr)


In notti senz’albe a far notte ancora

Come amico giunto all’improvviso
a cercar rifugio tra le mille carte
che inondano questo mio cielo urbano
perso in ritmi di versi insaziabili
amici di un insaziabile amore
segreto e palese unico e comunissimo
come comune son le parole di ogni verso
di ogni ritmo inventato e già disperso
in tempi senza ore né corse senza soste
in notti senz’albe a far notte ancora
per occhi e suoni che nulla tacciono
persi nella tortuosità di tempi e ore.

Notte scende la Notte
nel silenzio stellato.

Antonio Donadio
Bg, Notte di Natale 2021

Per il Centenario della nascita di Maria Luisa Spaziani (7 dicembre 1922). “Sarò felice come a Treviglio?”

Da Italian Poetry. La Poesia Italiana Contemporanea dal Novecento a oggi., riportiamo il ricordo del “nostro” poeta Antonio Donadio per il centenario della nascita di Maria Luisa Spaziani (7 dicembre 1922) assieme a una foto, tratta dal nostro archivio, che ritrae la grande poetessa con Antonio Donadio a Roma nei primi anni novanta. (n.d.r.)


Sarò felice come a Treviglio?” Frase questa che Maria Luisa Spaziani amava spesso ripetere nel corso della sua lunga vita.

Sono stata felice, a Treviglio, e ogni volta che nella mia vita molto ricca ho vissuto momenti molto belli, il parametro di base è stato Treviglio” così M.L. Spaziani ricordando gli anni (1955/1957) trascorsi a Treviglio come insegnante di lingua francese presso il Collegio Facchetti della cittadina bergamasca. La poetessa (o meglio il poeta, come lei stessa amava definirsi), aveva risposto a un’inserzione sul Corriere della sera: “Cercasi professore per collegio lombardo… ”. Erano anni in cui aveva necessità di lavorare. Il benessere familiare aveva subito un tracollo a causa del grave stato di salute del padre, ripetutamente infartuato, che aveva costretto la famiglia Spaziani a vendere anche la bella casa di Torino. E poi era felice perché Treviglio non era molto distante da Milano ove aveva preso a frequentare Eugenio Montale e allo stesso tempo poteva continuare a dedicarsi alle varie collaborazioni giornalistiche sia con l’autorevole Corriere della sera sia con altre testate minori. Anni dunque, nonostante i problemi familiari, felici. “Treviglio è diventata per me un po’ un’unità di misura. Il collegio è stato l’incontro misterioso della mia vita con la felicità e con un massimo di creatività poetica. E’ stato quello che i mistici chiamano” uno stato di grazia”. Un’ inspiegabile favola che mi ha ispirato le poesie di “Luna Lombarda”(1957). Premio Lerici, 1958. Opera che si apre con i versi di Suite per A.

E’ un piccolo canzoniere d’amore (nove poesie di solo otto versi divisi in due quartine) dove la A. sta per Albignano, frazione di Truccazano località non lontano da Treviglio. Ma questa dedica ad Albignano è un espediente ingannevole: in realtà è l’iniziale di un giovane, un collegiale, amato dalla giovane poetessa. Lo svelamento di questo depistaggio è la stessa Spaziani a fornircelo laddove in “Quartine per una piccola città” recita: “Addormentarmi nel nome di Treviglio/che Albignano fu detta e che non è”.

E allora spulciamo qua e là tra i versi di questo canzoniere a ricercar le orme di questo giovanile amore di quella che sarebbe diventata una delle più importanti poetesse (o poeti) del nostro Novecento. E allora non si può che riportare integralmente Suite per A.

Rimarrà su deserti lontani,/oltre le praterie del tempo./Baci, roveti, fiamme d’autunno/e un lungo addio tre le mani./Ritornerà con le nuvole, con le stagioni, /tremando ebbrezze seppellite:/ottenebrato, inutile, senza respiro.”

Da notare i due tempi futuri “Rimarrà” e “Ritornerà”: la poetessa si rende conto che quello che sta vivendo non è un capriccio giovanile e passeggero ma un “qualcosa” che è entrato in lei e che in lei rimarrà per sempre come dimostrato poi per l’intero arco della sua vita nel rimando felice di quegli anni di Treviglio.

Il mini canzoniere, dopo questo incipit/dedica, si apre con un riferimento aulico, classico: il suicidio per amore della poetessa Saffo che, non corrisposta dall’amato Faone, si gettò in mare dalla rupe di Leucade “Da rupi ben alte mi sono gettata per te,/alte come la notte o la solitudine.” Un fatto tragico che, però, nei due versi successivi, lascia spazio a un seguito scherzoso: “Ma sotto c’eri ancora tu a cogliermi/col balzo agile della pallavolo”. Nei due versi finali ritorna il riferimento classico, ecco la luna leucade che si trasmuta in luna lombarda della Bassa che sperde nel vento, come foglie, i volti dei due innamorati. “ Arde la luna si questa Leucade della Bassa /e il vento risucchia via i volti, come foglie”. Luna che ritorna ancora nei versi di chiusura della poesia seguente: “Quella luna un po’ triste è restata/per sempre, con la sua frangia di carta.”. Da notare quel per sempre” e la consapevolezza, per la giovane insegnante, della fragilità temporale di quest’amore ove la luna fa da testimone ma con la sua frangia di carta”. Storia d’amore vissuta in un’ordinaria quotidianità che in lei assume valenze inaspettate “ i letti sapevano di meliga; o lei che sedeva a tavola con lui di fronte dall’altro capo come a corte “ La tavolata immensa, come a corte, /tu da un lato, io dall’altro.” quasi richiamo alla storia d’amore tra Ginevra e Lancillotto e, laddove, perfino l’acqua di fonte del collegio che pur il mattino era freddissima “l’acqua il mattino spezzava le mani” diviene elisir incomparabile, testimone di una quasi sacralità laica“Non c’è al mondo liquore inebriante/come l’acqua di fonte del collegio./La si beve in bicchieri spessissimi/molto simili a lumi d’altare”. Ed è in quest’aurea vitale, seppure la bella stagione stava volgendo al termine “ Ai primi freddi”, che ha inizio il loro idillio”Fu in quell’aria di felce che parlammo/insieme, leggermente, la prima volta”. Quell’“insieme” e quell’avverbio “leggermente” come sussurro per un sentimento discreto, timido e anche un po’ impaurito a segnare una levità d’atmosfera quasi a richiamare le dolci parole d’amore di Francesca per suo cognato Paolo nell’ Inferno dantesco. Nulla di morboso di cui vergognarsi, quindi. E poi nelle poesie successive i vari momenti d’amore, come un viaggio nella vicina Milano “ Nel cuore di Milano attraversammo/ quella notte remore pinete”, ma la temporalità non ferisce, non rattrista“ Fu un viaggio interminabile sull’arco/ che dal mio tempo guida al tuo.“ o giorni al collegio tra” mura malinconiche” che però non intristiscono“Il ritornello come un mare in furia/morse, assalì le mura malinconiche, /con te mi ritrovai presa in un vortice/di sole e gioia, al salto dei delfini”. Ma Albignano che è servito da depistaggio, alla fine ritorna, e con essa ritorna anche la luna in un lirismo che sarebbe un delitto non riportare integralmente: “Albignano, fiorivano i ciliegie/lungo i tuoi fianchi gracili, riversi. /Su i miei campi riarsi, tra i miei versi/splendeva il grano // Tu mi desti la timida luna/che nei capelli da tempo mi brilla, / la scintilla di grazia, la fortuna/del quadrifoglio tra due rotaie“ Ed essi nella natura si fecero Natura, mi verrebbe da dire. Versi splendidi che mi hanno riportato alla mente la leggenda d’amore tra Filemone e Bauci cantata da Ovidio nelle Metamorfosi: per amore, lui tramutato in Quercia e lei in Tiglio. Per sempre insieme. Ma la poetessa sa che la loro storia è destinata a finire pur se la luna resterà testimone di quest’amore “che nei capelli da tempo mi brilla”. Le loro due vite si separano come due rotaie in un eterno viaggio parallelo senza più possibilità d’incontro.