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Coronavirus. La voce del poeta: Sgorgano Lacrime di Alfredo Alessio Conti

Tra tanti libri cartacei o anche in pdf (ndr: formato elettronico per computer, smartphone e tablet) che mi giungono a firma di poeti (a volte solo “nominalmente”) a me sconosciuti, pur leggendoli tutti con doverosa attenzione, solo ad alcuni dedico una più attenta lettura critica. Tra questi figura un testo, inviatomi, in verità, un po’ di tempo fa, a firma di Alfredo Alessio Conti a me sconosciuto e di cui nulla avevo mai letto prima. Tra le liriche che compongono questa sua ultima pubblicazione “La verità nascosta” mi piace proporre e soffermarmi su Sgorgano Lacrime che, ahimè, è di scottante attualità:

SGORGANO LACRIME

Non cambia mai il dolore.

Rimane sempre uguale.

Sono passi dentro

la profondità del cuore

sassi lapidari

nelle proprie membra.

Tutto tace

nell’ora della sera

e come fuochi d’artificio

sgorgano lacrime

nella solitudine.

Alfredo Alessio Conti

(da La verità nascosta Guido Miano Editore, Milano 2020)

In questi gravosi mesi scanditi da un virus che non accenna a placarsi né tanto meno a scomparire, questa poesia ci offre un’istantanea del dolore stesso che s’insinua ancor prima che nel corpo, nell’animo del mal capitato. Un guardare al dolore, qui personalizzato, che ha vita propria, che non conosce né tempi né spazi e che erroneamente ascriviamo, apoditticamente, come qualcosa che ha vita solo nel momento in cui, disgraziatamente, prende possesso in noi o peggio, s’impossessa completamente di noi. Il dolore è icasticamente raffigurato come un’entità che non ha volto e di cui sono avvertibili solo “passi dentro/la profondità del cuore”, passi come “sassi lapidari/nelle proprie membra”. E’ penetrante questa lettura del dolore che astoricamente colpisce sempre in ugual modo come dilanianti colpi di mortai ieri come oggi. “Non cambia mai il dolore./ Rimane sempre uguale.” Non assestiamo ad una sterile lamentazione da parte del poeta, ma, come un cronista, dà voce al dolore senza alcuna censura attraverso una fedele registrazione dell’enormità del danno, spesso mortale, che causa. Né il poeta si erge a giudice o a commenti moralistici o salvifici: pura testimonianza della forza indomita del dolore. Nella seconda parte, la scena cambia: si sposta su una panoramica intimistica e solo apparentemente naturalistica: “Tutto tace/nell’ora della sera” (chiare atmosfere pascoliane). Un silenzio che sa di sconfitta, ahimè: nella sera aleggia il presagio stesso dell’estrema sofferenza, della possibile prossima fine della vita. Ultimo atto: si è “come fuochi d’artificio.” Quasi a rischiarare la notte incipiente, lacrime che nulla consolano ma danno una lezione di umanità, di disapprovazione personale e sociale di questa mortale presenza, spesso conseguenza di sconsiderate azioni dell’uomo che ancora ama professarsi pensante e civile.

Alfredo Alessio Conti nato nel 1967 a Bosisio Parini in provincia di Lecco, vive a Livigno. Tra le sue raccolte di liriche: Poesie Amiche, Gruppo Fruska, 1991;  Nelle dune di Saffo, Book Editore, 1994;  Vivo di Te, Gabrieli, 2007;  Ho un ragno nel cuore e amore i suoi fili d’argento, Cromografica Roma Gruppo Editoriale l’Espresso, 2012; La verità nascosta prefazione di Nazario Pardini, Guido Miano, 2020. E’ presente in: Dossier Poesia -Profilo della poesia italiana del secondo novecento di Francesco De Napoli, Book Editore, 1993 e in Italian Poetry La poesia italiana contemporanea dal Novecento ad oggi. Baccalaureato in Teologia- Ponti ficia Università Urbaniana, Roma, è molto attivo in ambito sociale relativamente a gravi problematiche giovanili.

CAVA DE’ TIRRENI (SA). Ricordando Gino Palumbo, l’”aluisinus avis columba”, come lo chiamava Gianni Brera

Quando nel 2016 ho dato alle stampe il mio saggio antologico su il Calcio nella Letteratura italiana (ndr, Antonio Donadio Calcio d’autore da Umberto Saba a Gianni Brera: il football degli scrittori. Postfazione di Alessandro Bonan, Editrice La Scuola 2016 pagg. 153 Euro 11,00) tra grandi poeti e scrittori (Saba, Pasolini, Gatto, Arpino, Guareschi, Eco, …) certamente alla “voce” grandi giornalisti sportivi, non poteva mancare il nome di Gino Palumbo.
E nel ricordarlo oggi a 100 anni dalla nascita e plaudendo al progetto del Comune di Cava, città di nascita di Gino, di volergli rendere doveroso omaggio, appena il Covid lo permetterà, con un premio giornalistico a lui intitolato, mi fa piacere riportare alcuni passi dal succitato saggio in cui, seppure brevemente, ne tratteggio l’inconfondibile stile sottolineando che la sua scrittura fu, per scelta, una scrittura lineare, chiara, godibilissima, popolare. Affermava, infatti: “Tutti devono capire tutto”. Si menziona il non facile rapporto umano e professionale che ebbe con Gianni Brera, altro grande del giornalismo sportivo fino a ricordare ciò che disse Palumbo in una delle sue ultime interviste su come il calcio moderno (fine anni 80) stesse mutando, e secondo lui, in peggio.

“ [ ]Gianni Brera (Il Giorno) / Gino Palumbo (La Gazzetta dello Sport). Due grandi giornalisti –agli antipodi su tutto- … vissero un forte, viscerale, confronto/scontro (“Per mero istinto mediterraneo scese subito in lizza contro il Giorno assumendone le tesi contrarie… Arrivò pure allo schiaffo forte e solenne…”). Brera, pavese, tifoso dell’Inter, era per il calcio maschio, virile, per un giornalismo che fosse sopratutto tecnico; Gino Palumbo, “napoletano”, ma nato a Cava de’Tirreni in provincia di Salerno, tifoso del Napoli, era per il calcio spettacolo, l’eleganza unita alla tecnica e alla correttezza del gesto atletico. Contro la vulgata secondo cui il giornalismo sportivo è giornalismo minore, non condivideva gli atteggiamenti di taluni intellettuali che snobbavano il gioco del calcio, ritenuto troppo popolare:

Il giornalismo sportivo ha saputo dialogare con la gente ne ha conquistato la fiducia; e’ scrittura chiara, diretta, incisiva: attrae i giovani. Spesso la Gazzetta fa da primo approccio alla lettura: e crea “clienti” anche per gli altri quotidiani “

Il calcio è un gioco adatto a ogni fisico, razza, temperamento, Chiunque può eccellere: alto, basso, robusto o mingherlino. E qualcuno riesce a diventare campione calciando soltanto con un piede. Poi c’è il fascino dell’imprevedibile: basta uno spostamento di pochi millimetri al momento dell’impatto tra scarpa e pallone per mandare il tiro in gol o sul palo. E spesso una rete fortuita decide la partita.”

Scrittura lineare, chiara, godibilissima, popolare per scelta: “Tutti devono capire tutto”, venata di visioni ammantate, a volte, di un certo romanticismo decadente.

Brera affermava:

Gino Palumbo (il mio Aluisinus Avis Columba) non era uno scrittore: aveva un suo lessico piano, uno stile pacato, senza voli. Si accontentava di esser chiaro; ma diceva cose tanto semplici da non dover proprio temere il contrario”.

Nell’ultima sua intervista, primavera del 1987, Palumbo traccia, senza nascondere un pizzico d’amarezza, il ritratto di uno sport ormai terreno di conquista di sofisticate riprese televisive. Quasi profeticamente presagisce l’odierno gioco del calcio, sempre più ipotecato dal sistema mediatico.

Le telecamere frugano tra i muscoli degli atleti, ritraggono i dettagli di ogni impresa, evidenziano capolavori tecnici un tempo impercettibili. Ogni mistero è svelato, e lo sport smarrisce le suggestioni poetiche, i campioni mostrano distacco professionale.”

Originalità di scrittura e differenzazioni tra mero pezzo giornalistico e inventio narrativa/poetica, finiscono, così, col fondersi.

Da Tu scendi dalle stelle di Sant’Alfonso de’ Liguori a Claudio Baglioni a Natale in casa Cupiello

Mi è capitato, per caso, ascoltare su Rai 1 la pastorale Tu scendi dalle stelle cantata da Claudio Baglioni. Sono rimasto sorpreso nel notare alcune variazioni apportate al testo originale di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori (cui dedicai un “pezzo” il Natale dello scorso anno (N.d.R. Quanno nascette Ninno a Bettalemme, pastorale di Sant’Alfonso de’ Liguori. Ricordiamola – 24 dicembre 2019)

Vediamo alcune di queste variazioni (in maiuscolo le parti oggetto di confronto).

Versione originale:

Tu scendi dalle stelle, o Re del cielo,

e vieni in una grotta al freddo e al gelo,
e vieni in una grotta al freddo e al gelo.
O Bambino mio divino,
IO TI VEDO QUI TREMAR’,
o Dio beato!
AHI quanto ti costò l’avermi amato!
AHI quanto ti costò l’avermi amato!

A te, che sei del mondo il Creatore,
MANCANO PANNI E FOCO, o mio Signore,
MANCANO PANNI E FOCO, o mio Signore.

Testo cantato da Baglioni:

Tu scendi dalle stelle,
O Re del Cielo
E vieni in una grotta al freddo e al gelo
E vieni in una grotta al freddo e al gelo

O Bambino mio Divino
IO TI VEDO TREMARE UN PO’
O Dio Beato
MA quanto ti costò
L’avermi amato
MA quanto ti costò
L’avermi amato

A te, che sei del mondo
Il Creatore
I PANNI E FUOCO MANCANO o mio Signore
I PANNI E FUOCO MANCANO o mio Signore

(Fonte Musixmatch)

Non conosco i motivi che hanno portato alle modifiche ma credo interessante soffermarsi, seppure brevemente, su alcune di esse:

VERSO 5°

Originale:

IO TI VEDO QUI TREMAR

così cambiato:

IO TI VEDO TREMARE UN PO’

Una variazione: cambiare QUI (avverbio di luogo) con un PO’ (pronome indefinito quantitativo), che ritengo non appropriata e che indebolisce la cifra poetica di Sant’Alfonso. Il QUI non sta solo come semplice avverbio di stato in luogo (qui, in questa capanna) ma diviene uno stato in luogo simbolico: qui, ovvero sulla terra. Ormai Dio, fattosi uomo, inizia a tremare proprio come un uomo fra gli uomini.

VERSI 7 °/ 8°

Originali:

AHI quanto ti costò l’avermi amato!
AHI quanto ti costò l’avermi amato!

così cambiati:

MA quanto ti costò
L’avermi amato
MA quanto ti costò
L’avermi amato

Il MA, semplice congiunzione avversativa non ha la forza dell’interiezione AHI con punto esclamativo alla fine del verso. Il MA indica solo una conseguenza di quest’atto d’amore, solo un contrasto con quanto affermato prima, mentre AHI indica la consapevolezza da parte dei credenti di un vivo dolore, non solo simbolico ma anche fisico, nelle carni di questo Dio fattosi uomo per riscattare i nostri peccati.

VERSI 10°/11°

Originali:

A te, che sei del MONDO il Creatore,
MANCANO PANNI E FOCO, o mio Signore,
MANCANO PANNI E FOCO, o mio Signore.

così cambiati:

A te, che sei del MONDO
Il Creatore
I PANNI E FUOCO MANCANO o mio Signore
I PANNI E FUOCO MANCANO o mio Signore

Da notare la trasposizione del verbo “MANCANO” ma soprattutto la variazione di FUOCO al posto di FOCO. Questa modifica fa venir meno l’assonanza al mezzo con MONDO del verso precedente. Parrebbero piccole cose, ma sono sostanziali: è auspicabile che la purezza di un testo sia garantita sempre di là da diritti d’autore (almeno che non si “riscriva” completamente). Non credo che il sig, Baglioni sarebbe contento se qualcuno cantasse “Strada camminando”.

Purezza di un testo che l’altra sera, a pare mio, non è stata garantita dalla “libera” trasposizione filmica: “Natale in casa Cupiello. tratto da Eduardo de Filippo”. Per chi ama Eduardo, applaudito più volte in vita e ancora nelle registrazioni televisive, quello proposto da Rai 1, è qualcosa d’altro, che assolutamente non rivedrei né consiglierei. Qualcuno l’indomani ha scritto: “Nessun paragone, ricalco o sudditanza psicologica”. Sono d’accordo: nessuno si sognerebbe di paragonarsi a Eduardo o ricalcarlo, ma allora lasciamo agli spettatori godere dell’originale, un piccolo capolavoro del Novecento Italiano, non proponiamo una “rilettura” onesta, ma a pare mio, certamente non rappresentativa del “Mondo Eduardiano”.

… e Rossi va in gol

Nella giostra
del palio mondiale
tacciono le bombe. Dimenticate.
Il Paese nasconde il dolore
… e Rossi va in gol.

Stanotte
qualcuno griderà più forte ti amo e
Gano inutilmente attenderà Roncisvalle.

Domani tornerà
il consumato sole.

(Antonio Donadio, 11 luglio 1982)

(da Antonio Donadio L’altro Calcio, Mitilia Editrice, 1984)

Madrid,11 luglio 1982 -Stadio Berbabeu. La storica immagine di Sandro Pertini, Presidente della Repubblica Italiana, con a fianco il Re Juan Carlos di Spagna che al risolutivo gol di Tardelli (3 a 1) urla, come un qualsiasi tifoso, “Non ci prendono più”, è impressa in modo indelebile nella nostra mente. L’Italia vinceva il Campionato del mondo di calcio! Il nostro Paese sembrava impazzito. Tutto dimenticato in quella notte: altro non c’era che festeggiare e Paolo Rossi (Pablito), era il nostro piccolo Davide: aveva sconfitto dapprima Golia, l’imbattibile Brasile, con tre gol, poi rifilati due gol alla Polonia e, in finale, un gol alla temutissima Germania Ovest.

Una notte troppo diversa dalle altre per non essere memorabile, non divenire “storica”. E oggi che quel piccolo Davide ci lascia a soli 64 anni, tristemente riscopro questi miei versi scritti in “quella notte” quando tutto sembrò lontano, anche i dolori, i lutti, le guerre “ Nella giostra/del palio mondiale/tacciono le bombe. Dimenticate”. I gol di Paolo Rossi avevano fatto svanire tutto per incanto. Notte magica in cui sembrò, come in una favola, prevalere su tutto e tutti l’amore “qualcuno griderà più forte ti amo” e lo spirito d’onestà e fratellanza “Gano inutilmente attenderà Roncisvalle”, ma ahimè, al sorgere del sole tutto sarebbe svanito: un altro giorno, solo un altro giorno, uguale a tutti gli altri. Ma “quella notte” rimane indelebilmente “magica” e un pezzo di quella magia avrà per sempre le sembianze di un piccolo numero 20 chiamato Paolo Rossi.

Maradona il poeta del gol

Solo un anno prima di essere assassinato in modo esecrabile e fascista, Pier Paolo Pasolini dalle colonne de ”Il Giorno “ affermava:

Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno.”

Se per Pasolini miglior poeta dell’anno, è il capocannoniere, a buon diritto allora si potrà affermare che il miglior poeta del gol è stato il più grande giocatore di tutti i tempi Diego Armando Maradona.

Per Pasolini, infatti, inscindibile era il connubio calcio e poesia:

Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del “goal”. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica”.

Affermava che “il sogno di ogni giocatore (condiviso da ogni spettatore) è partire da metà campo, dribblare tutti e segnare. Se, entro i limiti consentiti, si può immaginare nel calcio una cosa sublime, è proprio questo. Ma non succede mai. E’ un sogno…”

E invece questo sogno si materializzò il 22 giugno 1986 allo stadio Atzeca di Città del Messico nei quarti di finale della Coppa del Mondo FIFA tra Argentina e Inghilterra: Maradona, dalla propria metà campo, iniziò, palla al piede, una corsa di sessanta metri, e in dieci secondi, superò ben sei avversari, compreso il portiere Shilton e depositò in rete il pallone del più bel goal di tutta la storia del gioco del calcio. Il sogno di Pasolini si era avverato, ma il poeta non potette vederlo, essendo stato assassinato dieci anni prima. Maradona aveva segnato il gol più poetico del mondo.

Su Diego Armando Maradona si è detto e scritto di tutto, e ancora si dirà, ma solo oggi con dolore, noi amanti del calcio, e non solo noi tifosi del Napoli (che immensa gioia il primo scudetto della storia partenopea!), ci rendiamo conto che anche un dio del calcio, è solo un mortale dio pagano. Ma chi è era Maradona?

Ricordiamolo nel “ritratto” che ne aveva fatto Gianni Brera, giornalista dalla penna singolare e “stravagante” (oggi, purtroppo, male imitato da taluni “opinionisti sportivi”):

“… Maradona è uno sgorbio divino, magico, perverso: un jongleur di puri calli che fiammeggiano feroce poesia e stupore (è dei poeti il fin la meraviglia). Talora uno dei suoi piedi serve fulmineamente l’altro per una sorta di paradossale ispirazione atta a sorprendere: ma quando vuole, questo leggendario scorfano batte il lancio lungo che arriva, illumina, ispira: capisci allora che i ghiribizzi in loco erano puro divertissement: esibizione per i semplici: se il momento tecnico-tattico lo esige, in quelle tozze gambe animate dal diavolo entra solenne il prof. Euclide. E il calcio si eleva di tre spanne agli occhi di coloro che, sapendolo vedere, lo prediligono su tutti i giochi della terra.“

Ma parlare di Maradona è parlare non solo del Napoli e di Napoli. Figlio adottivo di questa terra meravigliosa e dannata (proprio come Diego). Maradona, ricordiamolo, argentino di nascita, infatti, in una meravigliosa canzone “Tango della Buena Sorte” di un altro grande figlio di Napoli, Pino Daniele, anche lui, ahimè scomparso a soli sessant’anni, diventa ancora qualcos’altro, icona “magica” per un altro tipo di vittoria, il riscatto sociale e umano del popolo argentino.

Tango della Buena Sorte

Lui è un mago con il pallone
io l’ho visto alzarsi da terra
e tirare in porta
soffia il vento d’Argentina
d’avanti agli occhi spalancati
e pieni di grande speranza.

E’ il momento giusto
suona il tango per magia
lui è l’uomo giusto
che ci può far vincere
tango della buena suerte.

Ma la partita più importante
è da giocare con la vita
stando a metà del campo
mentre chico corre intorno al mondo
noi non abbiamo ancora
imparato questa lezione.

Ed a luci spente
suona il tango per magia
resterà qui per sempre
come un fermo immagine
chico buona fortuna.

Ed al momento giusto
suona il tango per magia
lui è l’uomo giusto
che ci può far vincere
tango della buena suerte.

Pino Daniele

( da “Passi D’Autore” , 2004)

(ndr Alcuni passi dell’articolo sono tratti dal saggio su calcio e letteratura italiana dello stesso Antonio Donadio: A.D. Calcio d’autore da Umberto Saba a Gianni Brera: il football degli srittori- Postfazione di Alessandro Bonan, Editrice La Scuola, 2016)