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Cava de’ Tirreni (SA) – Lombardia. Il volo di Giovanna Di Domenico, violoncello alle nozze di Federica Pellegrini ed al Gran Premio di Moto GP

Ha solo ventisei anni e già un bell’avvenire dietro le spalle, Giovanna Di Domenico, operativa in Lombardia ma cavese doc per residenza e origine (è figlia del dottor Maurizio Di Domenico e della cara Amanda P. Bough, purtroppo precocemente scomparsa poche settimane fa).

Suona da quando aveva dieci anni, ha fatto il suo primo concerto a dodici (da pianista), per specializzarsi poi nel violoncello sotto la guida di maestri coi fiocchi ( Maria Cristina Tortora dell’Accademia “Jacopo Napoli”, Silvano Fusco, Valeriano Taddeo, Ilie Ionescu…). Diplomatasi presso il Conservatorio “Domenico Cimarosa” di Avellino, ha intrapreso la via dell’insegnamento, in Lombardia, tra le province di Como e Milano (attualmente insegna a Saronno).

La sua passione però rimane la musica suonata. In questo campo sta prendendo il volo, e che volo, dopo un 2022 dorato che l’ha vista, tra l’altro, esibirsi in manifestazioni di risonanza nazionale e internazionale, come il matrimonio della “divina” Federica Pellegrini, supercampionessa di nuoto, e il Gran Premio di Motociclismo a Misano. Roba da squagliarsi di emozione. Ne parliamo direttamente con lei.

  • Quali immagini ti porti nel cuore, dopo questi due eventi esaltanti?

  • Impossibile dimenticare l’atmosfera del matrimonio di Federica Pellegrini, in quella magica serata. L’Isola delle Rose a Venezia, una location elegante, emozioni profonde, gioia diffusa in ogni angolo, la divina Federica più splendente che mai, la sposa sul palco a ringraziarci per aver animato la sua festa, il coinvolgimento di tutti in un’atmosfera assolutamente amicale…. E tanta musica nel cuore, oltre che dai nostri strumenti. Ci siamo sentiti anche noi degli invitati come gli altri…. Quasi una fiaba….

  • E a Misano?

  • Una storia completamente diversa, anche se altrettanto affascinante. Immaginate, nell’esecuzione, puntati direttamente su di noi gli occhi delle autorità e degli atleti e delle decine di migliaia sugli spalti e nel prato, senza contare i milioni in televisione. E noi in pista con gli strumenti pronti a suonare, con il cuore che correva come un treno.

  • Tra l’altro, avete intonato l’inno di Mameli…

  • È stato il momento più emozionante. Il cuore continuava a scoppiarci. Ma alla fine ce l’abbiamo fatta… e non nascondo che, per la gioia e lo sfogo della tensione, ci è anche scappata la lacrimuccia…

  • Chi erano i tuoi partner?

  • A Venezia ho suonato con la Arechi band, che, come dice il nome, è di origine salernitana. A Misano con il quartetto d’archi, guidato dal manager Davide Bulega, in cui mi sono inserita nel corso della mia esperienza di insegnamento in Lombardia. Con me al violoncello, c’erano ai violini Caterina Coco (milanese di residenza, siciliana di origine) e Silvia Beatrice Pagano, milanese, alla viola Matteo Lipari (comasco), alla chitarra elettrica Giulio Maceroni (comasco).

  • E ora, continuerai a fare il gabbiano…

  • Sì, ma pur sempre un gabbiano coi piedi per terra, con le spalle coperte dall’attività dell’insegnamento nelle scuola pubblica. E, pur proseguendo l’attività in Lombardia, rimango, nel cuore e nella residenza, una cavese doc. A Cava c’è la mia famiglia, che per me è un mondo d’amore. A Cava e nel territorio ci sono le mie radici forti, di affetti e formazione, sociale e musicale.

  • Da queste radici verrà ancora la linfa che darà forza alle tue ali.

  • Certamente, ed è bello sapere che ci sono state… e ci sono.

Cava de’ Tirreni (SA). Il Quarantennale della morte di Mamma Lucia

Il quarantesimo anniversario della scomparsa di Mamma Lucia sarà ricordato a Cava de’ Tirreni con una celebrazione eucaristica e con una manifestazione show.

Sabato 27 agosto, data precisa della ricorrenza, alle ore 20,30, Santa Messa in Duomo, celebrata da don Rosario Sessa su iniziativa dell’Associazione La Bolla Pontificia, fondata da Giuseppe Ferrigno e oggi presieduta da Antonio Russo. L’Associazione da tempo ogni anno celebra la messa, non al Duomo ma a Castello, dove ha allestito una grotta che simbolicamente ricorda l’opera di scavo e di recupero di soldati tedeschi effettuata dopo la guerra dalla nostra carissima Madre dei Caduti. Al termine della cerimonia, piccola fiaccolata verso la Chiesa di San Giacomo, per tutti ufficiosamente la “Chiesa di Mamma Lucia”, dove lei riponeva i cassetti con le salme e dove in seguito per anni tante persone si raccoglievano con lei per pregare e stare insieme.

Lunedì 29 agosto, con inizio alle ore 20,00 e ingresso dalle ore 19, 30 ma fino ad esaurimento posti, il Comitato Figli di Mamma Lucia per il Museo (presieduto da Felice Scermino e composto da Annamaria e Lucia Apicella, Lucia Avigliano, Gennaro Galdo, Gaetano Guida, Alfonso Prisco, Beatrice Sparano e Franco Bruno Vitolo, che farà anche da conduttore) ha organizzato presso il cinema Alambra, in Piazza Abbro, una manifestazione show, dal titolo “Quaranta, ma non li dimostra”.

Saranno proiettati filmati inediti, anche come anteprima e come tempo supplementare; sarà evidenziato con documenti vari, testimonianze e poesie, il grande impatto mediatico di Mamma Lucia che è ancora vivo anche in Germania, pur dopo ottant’anni; si parlerà di Salerno 1943, il caposaldo di San Liberatore, il grande, epocale volume curato da Francesco Lamberti che ripercorre anche con documenti originali (di origine tedesca) lo Sbarco di Salerno minuto per minuto e parla in dettaglia della Battaglia di Cava e propone anche l’elenco dettagliato di tutti i caduti, specificando quelli recuperati con certezza da Mamma Lucia.

Quindi, dopo i saluti del Presidente del Comitato Felice Scermino e del Sindaco Vincenzo Servalli, i membri del Comitato in breve racconteranno il cammino fatto finora e quello ancora da fare portare al traguardo il nascente Museo dedicato a Mamma Lucia: questo alla presenza dell’ex Sindaco Marco Galdi, che istituì 2014 il Comitato, e della Direttrice della Biblioteca Comunale Barbara Modica, che ancora custodisce il materiale messo a disposizione dalla famiglia Apicella.

Sarà presentato il nuovo logo del Museo, realizzato da Mauro Paolucci e porteranno la loro testimonianza i membri delle Associazioni che attualmente si interessano dell’opera di Mamma Lucia: il Gruppo Promotore del Premio Mamma Lucia alle Donne Coraggio, il Gruppo Teatrale “Luca Barba” di Geltrude Barba, la già citata Bolla Pontificia, Cavastorie di Aniello Ragone.

Il clou della seconda parte sarà rappresentato dall’intervento dell’Arcivescovo Mons. Orazio Soricelli, che parlerà anche delle possibilità e delle intenzioni di un’azione di beatificazione.

La manifestazione dell’Alambra ha una duplice valenza. Innanzitutto, ricordare la figura di Mamma Lucia ed esaltare il messaggio di Pace, di Amore e di Maternità universale che lei ha lanciato, un messaggio che purtroppo deve ancora essere gridato forte in questo tempo in cui tanti venti di guerra soffiano ancora. Da qui il titolo e l’immagine del manifesto, che evidenziano proprio l’attualità e la forza della speranza che emanano dalla figura sorridente di Mamma Lucia.

L’incontro intende anche fare il punto sul nascente Museo, per allestire il quale proprio il Comitato sta lavorando oramai da anni in alcuni locali dell’ex carcere concessi dal Comune. Oramai il traguardo non è lontano: il materiale da esporre (filmati, foto, bacheche, pubblicazioni, la canzone del musical, etc.) è a disposizione, i pannelli sono in allestimento, gli strumenti elettronici sono in acquisto. Tutto questo grazie alle generose offerte raccolte, nelle chiese e da tanti privati, non solo di Cava. Una prova di attaccamento commovente per la più amata dai Cavesi.

E il Museo, quando sarà, non sarà solo di Cava… e sarà un patrimonio di Umanità…

Campania. Poesie dal mondo, in napoletano, per un mondo d’Amore: il canto di Salvatore Esposito

Tutte nella versione in lingua italiana e nella rispettiva traduzione, o traslitterazione, in lingua italiana: cinquantanove poesie di circa cinquanta poeti dei cinque continenti, dai grandissimi del Novecento a scoperte o riscoperte di stimolante suggestione. Ne deriva un esperimento originale, un’ariosa e musicale passeggiata nel mondo globale delle “emoriflessioni” in versi e della parola che ne rappresenta il colore e il sapore. Ne deriva un tuffo a spruzzi fecondi nella nostra lingua madre di Napoli , a conferma della sua forza espressiva ricca di intime armonie, dell’intreccio di correnti identitarie che ne caratterizzano l’anima, della sua capacità di assorbire dimensioni altre e come tale di farsi ponte di culture, così come in passato è stata la città che ne è depositaria.

È tale la sostanziosa sostanza di Abbraccianno ‘o munno (Spring Edizioni), quarto libro di Salvatore Esposito, poeta e scrittore casertano, componente di spicco dell’ANPOSDI (Associazione Nazionale Poeti e Scrittori d’Italia), da oltre cinquant’anni impegnata nella promozione e diffusione delle lingue dialettali. Questa raccolta rappresenta anche un significativo e produttivo esempio dello spirito “anposdino”, uscendo fuori dall’ambito della pura vernacolarità per diventare fruibile e formativa per chiunque ami la poesia. Infatti anche chi è estraneo al napoletano si può tuffare comunque a pesce in questa antologia di poesie comunque al top e comunque in gran parte già tradotte da altre lingue, quindi già distaccate dall’originale suono “etnico”. E ne apprezzerà la fondo lalto livello della dimensione letteraria.

Consapevole del fascino e delle difficoltà di questa piccola impresa, Esposito si è dovuto avventurare in una scelta certamente non facile e immaginiamo che avrà prima selezionato le liriche da lui più amate o stimate, poi ne avrà ponderato la compatibilità con la musicalità della lingua napoletana e avrà effettuato la sua “traduzione inclusiva”, con minuzioso rispetto dei ritmi interni di ogni opera. Se questo è un particolare tecnico, nelle considerazioni sull’intero lavoro ci hanno intrigato, accanto al risultato finale, proprio il cammino interiore e le implicazioni non solo linguistiche e poetiche ma anche esistenziali ed emozionali che hanno animato Esposito.

Anche lui, forse, con questo lavoro, si è chiesto con Machado: Che ccirche, pueta, ‘int’ ‘o tramunto? Forse, oltre a donare versi e napoletanità, nell’operare le scelte ha anche cercato di riannodare i fili delle “sue” vite, e nel farlo si è piacevolmente raggomitolato nei fili dei mondi che ha conosciuto al Nord e al Sud dell’Italia, dell’ammirazione per la cultura nazionale e internazionale, dell’orgoglio profondo e sentito per la sua ”cultura terrona”.

Il risultato di quest’operazione è un libro che tocca nel profondo, perché ci mette a contatto diretto con la vita, con il suo senso e soprattutto con la sua gestione, compresa quella troppe volte scellerata che ne fanno gli uomini, sciupandone nell’odio, nell’oppressione e nella trascuratezza emozionale le lumiinose potenzialità di amore e di bellezza.

Che non siano affermazioni astratte lo possiamo dimostrare anche percorrendo uno solo dei sentieri aperti dai testi nella loro successione, utilizzando volutamente nelle citazioni solo la lingua napoletana, che è la chiave portante dell’esperimento.

Se andiamo già a spulciare nei versi chiave delle prime poesie scelte, pur messe in ordine alfabetico secondo i cognomi dei poeti, ci troviamo sciorinate le principali problematiche che compongono la visione del mondo di Esposito e che lui del resto spesso ha inserito nelle sue precedenti raccolte, dove però in più a volte c’erano un’ironia e una ludicità che qui sono messe in disparte, data la dimensione a volte “sublime” della ricerca.

Si apre con l’invito alla ponderazione per sentire al meglio la vita (hê ‘a essere appusato, core, dalla Achmatova), per proseguire con la malinconia esistenziale in quanto tale (e na voglia ‘e chiagnere senza pecché, da Bertolucci), e con l’invito alla reattività e all’energia necessarie per affrontare il tutto (Nfino a quanno sì vviva, sientete viva, da Madre Teresa). E poi l’alternativa del sorriso ai “giochi di guerra” che fanno i ragazzi e adulti (Ce sta n’atu juoco ‘a nventà: fa ridere ‘o munno, nun farlo chiagnere, da Brecht), alle problematiche complicate connesse all’umanità dell’amore (Quanno Ddio criaje ll’ammore, nun c’ha aiutato assaje, da Bukovsky), fino ad arrivare, ultimo ma non meno importante, al senso profondo della natura e alla percezione del tutto e dell’infinito, nell’abbandono del silenzio e nellì ascolto mistico di quelle voci interiori che non sempre ci arrivano dentro fino in fondo. In questa chiave si spiegano la meritoria riscoperta di un “infinito silenzio” del D’Annunzio paradisiaco (Nun me vene a mmente ca ‘e nu silenzio ca nun ferneva maje, addo nu pàrpeto sulo, debbole, oh accussì debbole, se senteva.), il lorchiano cuore ca se sente n’isula d’ ‘o firmamento, la dolcezza caproniana del silenzio di una spiaggia di sera (nu rincresciuso scummà ianco ncoppa all’aleghe, e nu viento frisco che ssala ‘a faccia.), l’addore ‘e ll’univerzo mentr’ ‘e stelle mannano signale della Symbovska

In collocazione quasi centrale, troviamo le due frasi più alte, più universali e forse anche più “espositiane”: quel tenerissimo e ripetuto Tieneme pe mmana di Hesse, unaspirante boccata d’amore lunga una vita e lunghissima al tramonto e nei momenti di smarrimento (Tieneme pe mmana ô tramunto, quanno ‘a luce d’ ‘o juorno se stuta la dint’ ‘e juorne ca me sento sbaculiato) e lo stupendo, metaforico auspicio del poeta palestinese Mahmud Darwish (ammacaro fosse ‘na cannela dint’ ‘o suro), che richiama quel suo canto esistenzial popolare in cui riusciva a trasformare “la sua ferita in una lampada ad olio”.

Proseguendo nella lettura, che a questo punto avviene a ciliegia, perché una poesia tira l’altra,, noteremo che proprio sull’Amore, in tutte le sue forme, si concentra l’attenzione priimaria del nostro critico-traduttore-poeta. E si crea un arco radicale di tematiche che parte dalla sopportazione dell’idea di morte grazie al pensiero dell’amata nel Levi di Ausschwitz, quando combatteva con l’idea che ca ‘o munno era nu sbaglio ‘e Ddio e i’ nu sbaglio d’ ‘o munno. L’arco procede poi dall’ungarettiano attaccamento alla vita che nasce nella notte di guerra passata accanto ad un compagno massacrato quando cu ‘a cranatura d’ ‘e mmane soje trasuta dint’ ‘o silenzio mio aggio scritto lettere chiene d’ammore. E, lirica dopo lirica, perviene fino al coinvolgente, emozionante, avvolgente invito di Alda Merini a fare l’amore, non a fare sesso, sublimando l’unione fisica come l’unione totale di corpo e anima nel momento in cui avviene, a prescindere dai ruoli e dalle situazioni degli amanti, pecché ll’ammore è arte, e nnuje ‘e capulavore

Insomma, ce ne sono di passeggiate emozionali e meditative da fare in tutto il libro, ma l’emozione più forte, per chi è di lingua napoletana, diventa la consapevolezza di aver parlato e letto nella nostra lingua versi provenienti da altri mondi con la stessa disinvoltura con la quale potremmo citarli in lingua italiana, anzi forse con maggiore intensità e corrispondenza. È un ulteriore riprova che la lingua napoletana può… e c’è, e forse anche più di altre, che non con altrettanta facilità potrebbero travasare il napoletano nel loro idioma.

E allora teniamolo sul comodino, questo libro, e godiamocelo come ciliegina quotidiana, che addolcirà non solo il nostro orgoglio partenopeo, ma ci darà anche lo spunto per sentire meglio la vita e poi magari, spenta la luce, pensare con la Symboska che Dint’ ‘o scuro me cunosco nu poco ‘e cchiù, parte piccerella ‘e chist’infinito.

E poi addormentarsi nella culla della vita senza paura, perché a sciulià ‘nfunno è ddoce dint’ a stu mare d’ ‘o munno….

Cava de’ Tirreni (SA) – Medjugorje. Acqua, pollaio e frutteto: al traguardo la solidarietà di Cava per le nonnine di Medjugorje

Da Antonio Oliviero riceviamo e volentieri pubblichiamo.


Con grande emozione possiamo annunciare che è andato finalmente a buon fine il progetto di solidarietà partito dalla nostra Città di Cava de’ Tirreni a beneficio della Casa di Riposo di Ljubuski, presso Medjugorie, guidata con amore e passione dalla nostra cara Suor Paulina Kvesic.

Tale progetto già aveva prodotto l’istallazione di una conduttura di acqua corrente e poi aveva mirato alla realizzazione di un pollaio ed alla semina e alla piantagione di circa cento alberi da frutto, per cui sarebbe stata necessario anche un ampliamento del sistema idrico.

Tutte queste cose oggi sono realtà e le cinquanta nonnine ospiti dell’Istituto possono avere una vita quotidiana più confortevole, grazie all’impegno di solidarietà di tutti quei cavesi e amici del territorio, unitamente ai soci dell’AIASM nazionale, che hanno risposto con generosità al nostro appello e che ringraziamo veramente di cuore.

Tra questi, non possiamo fare a meno di citare Padre Giuseppe Lando, che non solo ha fatto cospicue donazioni ma è andato due volte a Medjugorje nonostante fosse già ultranovantenne: un’esperienza da cui abbiamo anche tratto un libro di emozionante impatto, dal titolo “La nostra Medjugorje”.(nelle foto, le copertine del libro con gli zampilli d’acqua e don Giuseppe con Suor Paulina, Antonio Oliviero e sua moglie Lella nel luogo dove è nato il frutteto)

Dobbiamo però anche rimarcare che, se lo scopo è stato raggiunto, ed è quella la cosa più importante, la cifra raggiunta non è ancora tale da coprire tutte le spese, comunque garantite dall’Organizzazione. Se in uno slancio di generosità qualcuno fosse intenzionato a dare un’ulteriore sostegno, può telefonare ad Antonio Oliviero (3486722256) e prendere eventuali accordi. E grazie sempre, nel nome di Maria !

Cava de’ Tirreni (SA) – Roma. “Elvira”, la prima donna regista del cinema italiano. E vola alto la biografia di Flavia Amabile.

Il 16 giugno, a Palazzo di Città di Cava de’ Tirreni, si è concluso il primo ciclo di presentazioni editoriali della Rassegna “Un libro (quasi al giorno)”, promosso dall’assessore alla Cultura Armando Lamberti e coordinato dal sottoscritto scrivente Franco Bruno Vitolo. Bilancio positivo sia per il numero e la qualità delle opere presentate (circa venti tra fine 2021 e prima metà 2022), sia per i rapporti stabiliti con creativi e associazioni non solo del territorio, sia anche per il format originale (da sottoporre comunque a verifica), che prevede la presenza non solo istituzionale dell’Assessore e l’introduzione attiva del conduttore.


Di alto profilo e prospettive l’ultimo della serie preestiva, incentrato su “Elvira” (Einaudi edizioni), di Flavia Amabile, giornalista e scrittrice de “La Stampa”, nonché originaria di Cava. Elvira è Elvira Coda Notari, la prima donna regista del cinema italiano e una delle prime del cinema mondiale, nata a Salerno nel 1975, operativa a Napoli, morta a Cava de’ Tirreni dove visse dal 1930 al 1946, autrice di oltre cinquanta film, alcuni dei quali diventati molto popolari anche negli Stati Uniti tra gli emigranti italiani.

Nel momento in cui andiamo on line apprendiamo con grande piacere che dopo Cava è prevista una presentazione mercoledì 22 giugno a Roma, alla Casa del Cinema, in cui dialogheranno con l’autrice il Ministro delle Pari opportunità Elena Bonetti e la regista Cristina Comencini. Un decollo di assoluto prestigio che apre splendide prospettive al personaggio, al libro ed alla scrittrice. Buon viaggio, Elvira!

Sottoposta ad un’ingiusta “damnatio memoriae” fino alla fine del secolo scorso (anche perché documentariamente di lei erano rimasti solo due film o poco più e foto che si contano sulle dita di una mano), ad Elvira Coda Notari dagli anni Novanta in poi è stato riconosciuto quello che le spettava di diritto: è lei la pioniera assoluta del cinema italiano, la prima regista donna, non Lina Wertmuller, come si pensava prima. E sulla scia, per quanto riguarda Cava de’ Tirreni, il merito di riscoperta delle sue “tracce metelliane” va tutto a Patrizia Reso, che ha pubblicato nel 2011 un libro assolutamente illuminante, diventato poi una delle sorgenti primarie di questa produzione di Flavia Amabile.

Elvira” non è un saggio storico o critico o una ricostruzione giornalistica, ma un’ampia biografia romanzata, con il giusto mix di documentazioni inoppugnabili e di personaggi e situazioni vere o verosimili. La narrazione parte dalla scoperta del cinema da parte della giovane Elvira, contestuale all’incontro con Nicola Coda, l’uomo della sua vita, padre dei suoi figli, socio con lei della Dora film, la Casa di produzione con cui “spaccò” in società. Termina col buen retiro a Cava de’ Tirreni, dove Elvira ha vissutogli ultimi sedici anni della sua vita, amareggiata per l’emarginazione e la censura con cui l’aveva schiacciata il regime fascista, che non voleva sentire parlare dei temi sempre cari ad Elvira, cioè di panni sporchi, vicoli malfamati, poveri disoccupati o emigrati, violenze contro le donne, donne in cerca di autonomia e libertà….

La vicenda è raccontata come in un film, con una successione rapida e accattivante di episodi che si sviluppano nel tempo, infiorati di scene d’ambiente e montati con cambi secchi, ma chiarissimi di tempi e di luoghi. In questo “film” Flavia Amabile ricrea intorno a lei dei personaggi a tutto tondo capaci di “bucare la pagina”, , . a cominciare dalle persone di famiglia, padre e marito in testa. Tuttavia nei fatti e nei dialoghi in modo molto convincente fa emergere dalla cintola in su la personalità fortissima e geniale, ribelle e tenace, di Elvira, scavandola fin dove è plausibile: dalla vita sociale, intensissima, fino alle zone più profonde del cuore e dei sentimenti.

Ed è questa ampiezza di sguardo, oltre che una scrittura scorrevole e coinvolgente, che permette alla scrittrice di innalzare una biografia ad opera letteraria. Questo, detto per inciso, non è una sorpresa, perché, con la varietà delle sue opere precedenti (a pupille aperte sulle tensioni e le ribellioni internazionali o sulle collettività emarginate in Italia o anche sulla “filosofia” dei limoni della Costiera), Flavia Amabile non ha certo bisogno di dimostrare le sue qualità di giornalista e scrittrice e l’acutezza del suo occhio capace di scavare nella società ed anche nell’animo umano.

Nella forza emozionale della sua narrazione concorrono e fanno effetto varie situazioni e fattori convergenti.

Innanzitutto, il flusso di magia che inonda il cuore di Elvira di fronte alle prime immagini in movimento del cinema e nella scoperta dell’amore, un amore che nel tempo si scontra con le necessità pratiche della vita quotidiana e soprattutto con la concretezza da dare alla produzione e al flusso degli affari. Scintille di questa magia sprizzano a tratti anche dalla descrizione dell’ambiente napoletano di inizio Novecento, alimentato da una vitalità estrema, ricchissima di fermenti culturali ed umani, (non dimentichiamo anche il fiorire della canzone napoletana classica….). Un ambiente poi purtroppo compresso dalla crisi internazionale e alla fine mortificato dal regime fascista.

La tensione narrativa cresce poi in parallela convergenza quando esplode in Elvira il conflitto sempre più forte, quasi divorante, tra la dimensione di madre e moglie e la scelta di non rinunciare alla sua professione, che la porta a rompere tanti schemi e sacrificando pressoché in toto l’amore di una figlia, e non solo di lei. Ed è qui che il racconto tocca le sue vette più alte, uscendo dal puro ventricolo biografico per scandagliare i muri e le crepe del cuore…

Alla radice di tante tensioni, la battaglia intrapresa fin dall’inizio da Elvira con determinazione assoluta per farsi largo come imprenditrice in un mondo di casalinghe, come donna in un mondo di uomini, come cantrice del popolo in un mondo in cui alla cultura ufficiale non manca certo la classica puzza al naso. Ma la tempra di Elvira, nella rappresentazione molto plausibile della Amabile, è tale che Lei fa scendere in campo la sfida esistenziale per l’affermazione di se stessa e della sua autonomia e libertà, con la conseguente induzione verso scelte anche castranti, eppure alla fine appaganti, perché non sono dipese da nessun altro. Quel sapore della libertà che alleggerisce anche dolori e sofferenze… e perfino il suo “autoesilio” a Cava. ..

Tutto questo, ed altro, è venuto fuori già dalla prima presentazione, ma verrà sempre più abbondantemente a galla in futuro, in quel futuro in cui ci auguriamo che decolli anche nell’immaginario collettivo la conoscenza di Elvira Notari, fino a farne magari una fiction televisiva, di quelle così buone e giuste dedicate alle donne mattone dell’identità collettiva. E se non lo è Elvira Notari, un mattone…

Ora, nel nostro piccolo di Cava de’ Tirreni, ci auguriamo che venga finalmente collocata la lapide sulla sua casa dove ha chiuso i suoi giorni e ci si decida anche a consacrarle la via già decisa, in un quartiere popolare, di quel popolo di cui lei è stata parte e voce. I primi frutti si sono già visti. Infatti la targa sarà apposta a spese della Famiglia di Patrizia Reso, con l’intento di un duplice, sacrosanto omaggio a due donne-luce che provengono dal ventre di Cava.

Il cammino è partito, anzi ripartito, intanto. E la ripartenza si è mostrata già tanto “amabile” …