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CAVA DE’ TIRRE4NI (SA). Convento di San Francesco: donata dai Lions di Cava-Vietri una grande cella frigorifera per la Mensa dei poveri

Riceviamo e volentieri pubblichiamo l’allegato comunicato del Club Lions Cava-Vietri, inviato da Antonio De Caro, addetto stampa e socio, riguardante l’azione di solidarietà che l’Associazione sta svolgendo sul territorio nella lotta contro la pandemia. Il più recente esempio è la cella frigorifera donata al Convento di San Francesco, da anni meritoriamente impegnato nel procurare un pasto a chi ha difficoltà, azione di cui mai come in questo momento abbiamo bisogno.

Tale gesto va inquadrato nella linea di servizio che è già contenuta nel motto ufficiale (We serve = Noi siamo al servizio) e che i Lions perseguono fin dal tempo della loro fondazione, avvenuta nel 1917 a Chicago. Tale linea è corredata dall’impegno strategico ad ampio raggio indicato sia nel nome (acronimo dell’espressione inglese Liberty, Intelligence, Our Nation’s Safety = Libertà, Intelligenza, Salvezza della nostra Nazione), sia nel simbolo. Qui, accanto alla ruota, ad indicare movimento e azione a 360 gradi, ed al significativo termine “International”, campeggiano due teste di leone segno di grinta, di forza e di coraggio. Esse sono simmetriche e bidirezionali, perché una è rivolta al passato ed alla conservazione di quanto fatto di buono, l’altra al futuro ed all’intenzione di continuare a fare del bene dove sia possibile. Nel caso della pandemia e dell’Italia, solo nel nostro Paese i soci Lions hanno raccolto e utilizzato finora oltre sei milioni di euro!

La Sezione territoriale di Cava Vietri è attiva da quasi quarant’anni (trentotto, per la precisione) ed ha agito sempre in piena coerenza con questa linea, offrendo servizi importanti alla Città e al territorio, tra cui, oltre ad iniziative culturali, proposte didattiche per le scuole, donazioni varie ad enti sanitari e di beneficenza, ricordiamo anche i documentari illustrativi della Valle Metelliana e delle sue belle realtà paesaggistiche ed artistiche.

L’attuale Presidente è Antonio Pisapia, che per l’anno sociale 2021-22 cederà il passo a Francesco Accarino. La Sezione fa parte del Distretto territoriale pluriregionale 108 Ya, presieduto da un prestigioso cavese, l’avv. Vittorio Del Vecchio.

A parte lo sciovinismo campanilistico, ci piace rimarcare quest’attività perché è cosa buona e giusta in questa fase… ed anche perché viene applicata in pieno la bellissima frase del latino Seneca, laicamente carica di umana socialità e profeticamente precristiana, risalente a due mila anni fa: “Non vive ancora pienamente per sé chi non vive anche per gli altri”.

E i Lions in tale direzione sanno ruggire decisamente bene… (Franco Bruno Vitolo)


La pandemia che ha sconvolto la vita del nostro pianeta e causato migliaia di vittime non ha risparmiato nemmeno l’Associazione Lions Clubs International, creando non pochi problemi ai singoli clubs.

Anche il Lions Club Cava-Vietri ha visto sconvolta tutta la programmazione predisposta nell’anno sociale 2019/2020, presidente l’avv. Marco Salerno, e nell’attuale anno sociale 2020/2021, presidente il dott. Antonio Pisapia, ma non ne ha impedito l’abituale impegno sociale, la presenza concreta sul territorio.

Infatti nell’anno sociale del Presidente Salerno è stato donato, unitamente al Lions Club Mercato San Severino, un ventilatore polmonare all’Ospedale “Santa Maria Incoronata dell’Olmo” di Cava de’ Tirreni, ed è stata acquistata un’autovettura per la locale Associazione umanitaria “Mani Amiche”.

Un impegno certamente significativo è il recente acquisto di una cella frigorifera per il Convento di San Francesco e Sant’Antonio di Cava de’ Tirreni, grazie anche al contributo della Fondazione del Distretto 108 Ya, presieduta dall’avv. Vittorio Del Vecchio, anche lui cavese d.o.c.

Una delegazione dei lions cavesi e vietresi, guidati dal Presidente Antonio Pisapia nel massimo rispetto delle norme anti Covid, nei giorni scorsi ha partecipato allo scoprimento di una targa ricordo, all’ingresso del deposito alimentare del convento. Cella frigorifero capiente ed indispensabile per custodire quanto la generosità dei cavesi offre. Infatti, come ha sottolineato padre Pietro Isacco, rettore del convento, la loro accoglienza e l’impegno umanitario è sempre costante. Ogni giorno vengono consumati pasti caldi per 30/50 persone nel chiostro del convento. Altri pasti vengono fatti recapitare a persone che non posso uscire di casa.

Ogni mese, poi, viene distribuito un pacco alimentare a circa 150 famiglie, oltre ad offrire assistenza medico-legale a persone in difficoltà. Un servizio, quest’ultimo, che si avvale di professionisti ed anche alcuni medici ed avvocati lions hanno dato la loro disponibilità. Da sottolineare che i frati francescani non usufruiscono di alcun sostegno economico e tutto viene fatto, come precisa padre Pietro, grazie alla generosità dei fedeli cavesi. Da aggiungere un’altra iniziativa: aver messo a disposizione di famiglie cavese, costrette a restare chiuse in abitazioni di pochi metri, alcuni locali del convento più ampi per un’intera famiglia.

Tutte iniziative, pertanto, di grande valore sociale ed umanitario alle quali i Lions hanno voluto dare un modesto contributo in un periodo così drammatico anche per la nostra città.

CAVA DE’ TIRRENI (SA). Scuola mia quanto sei bella! La Dad raccontata da uno studente di undici anni

Da Antonio De Caro jr., studente della Scuola Media “A. Balzico”, nipote e puntella di Antonio De Caro, decano dei giornalisti cavesi, ex Presidente dell’Associazione Giornalisti “Lucio Barone” e attualmente Direttore di “Fermento” e addetto stampa dell’Arcivescovo Mons. Orazio Soricelli, riceviamo e volentieri pubblichiamo questa nota sulla sua esperienza di didattica a distanza. È il suo battesimo ufficiale nel mondo della stampa. Lo accogliamo con un affettuoso sorriso e gli auguriamo di ripercorrere brillantemente le orme e il prestigio di suo nonno. Ad maiora! (la Direzione di Vivimedia)


Lasciare ragazzi e ragazze in Didattica a Distanza per tre mesi? Una follia!

Intendiamoci: sappiamo tutti che nel 2020 è scoppiato il Covid 19, epidemia che ha costretto i ragazzi di tutta Italia a fare le video lezioni da casa, e perciò il nostro Governatore ha deciso di farci stare in sicurezza.

Anch’io sono d’accordo con questa decisone ma, se considerate che dei ragazzi di 11 anni come me e tutta la mia classe, o anche più piccoli sono stati costretti a stare per sei ore davanti a uno schermo, allora capirete che non è poi così bello.

Infatti dopo il primo mese di Dad quasi tutti hanno iniziato a lamentarsi: eravamo stanchi e frastornati dalla tecnologia, sapendo per di più che la Regione aveva deciso di farci tornare in presenza solo a gennaio.

Le cose brutte o particolari della Dad sono principalmente tre: la prima è il fatto di non poter avere il contatto fisico con professori e compagni, di non potersi salutare o guardare dal vivo; la seconda è che si possono disattivare webcam e microfono o far finta a volte che sia caduta la connessione quando i professori vorrebbero interrogare; e l’ultima è il fatto che ogni tanto mentre stavi svolgendo un’espressione matematica il tuo vicino bussava alla porta chiedendo “avete dello zucchero?”, oppure mentre stavi raccontando un’impresa di Carlo Magno sentivi tua mamma che passava l’aspirapolvere. A me ad esempio è capitato che una volta mio fratello ha fatto irruzione nella mia cameretta per dirmi le sue stupidaggini: avevo il microfono aperto e hanno sentito tutti!

Ma le video lezioni hanno portato anche dei vantaggi: ad esempio ci potevamo svegliare alle otto perché dovevamo collegarci alle 8:30; avevamo dieci minuti di pausa ogni ora che sfruttavamo facendo quello che ci piaceva; potevamo tenere i nostri vestiti comodi e non le divise scolastiche.

Da due settimane fortunatamente siamo tornati in presenza, ovviamente con le mascherine e le distanze di sicurezza, e abbiamo cominciato a risentire le sgridate delle prof, a vedere anche i corpi e le gambe dei nostri amici, e non più solo il loro volto. E la guerra di palline di carta non è mai stata così divertente.

Scuola mia quanto sei bella!
Spero di continuare così fino alla fine dell’anno.
Me lo permetterete, signori del Governo, signor Governatore e soprattutto lei, Signor Covid?

Antonio De Caro Jr.

CAVA DE’ TIRRENI (SA). Parrocchia di San Lorenzo: il congedo di don Raffaele Conte, maestro di “religioia”

Gli succede don Giuseppe Nuschese, colonna nascente della Chiesa metelliana.


Il buon sacerdote si riconosce da come viene unto il suo popolo. Quando la nostra gente viene unta con olio di gioia lo si nota: per esempio, quando esce dalla Messa con il volto di chi ha ricevuto una buona notizia.

Pronunciata da Papa Francesco agli inizi del suo pontificato quando cominciò la sua campagna a favore dei “sacerdoti non asettici”, questa definizione si adatta a pennello a don Raffaele Conte, il parroco della Chiesa di San Lorenzo a Cava de’ Tirreni che lo scorso week end (30-.31 gennaio) dopo oltre cinquant’anni di sacerdozio e venti circa proprio in quella parrocchia, ha concluso il suo mandato. Si è congedato in un emozionato ed emozionante abbraccio collettivo, gravido di un affetto profondo che viene da lontano e guarda lontano, Si è congedato con la sobrietà, l’essenzialità e l’incisività di sempre: semplicemente celebrando l’eucaristia e poi, nel consueto congedo scritto, invitando a vivere la vita come un’opera d’arte, non nel senso estetico, ma cercando sia il senso della vita e delle azioni sia la bellezza delle cose e delle persone.

I fedeli se ne sono andati per una volta non solo unti di gioia ma anche unti di lacrime, pregne di commozione e dolore per il distacco da una figura straordinaria, intrise di contrito dispiacere per la non buona notizia di un congedo che, per quanto non inatteso a causa di problemi di salute, è risultato quasi improvviso e accelerato rispetto all’interregno collaborativo che da poco si era instaurato con il futuro parroco, don Giuseppe Nuschese.

In effetti, il modo di vivere il sacerdozio e l’esistenza da parte di don Raffaele è di quelli che lasciano un segno profondo, perché danno colore e calore ad ogni istante della vita quotidiana, gioioso o doloroso che sia, e arrivano al cuore della spiritualità di una persona. Questo segno egli lo ha lasciato fin dall’inizio della sua missione, quando, pur rispettando le regole della liturgia tradizionale, finiva a volte col romperle, nel suo intento di puntare all’uomo e non alle forme, di privilegiare il potere dei segni sui segni del potere.

Fermo restando il cammino verso l’al di là che caratterizza alla base la vita del cristiano ed è segnato dal lato verticale della croce, don Raffaele è sempre stato molto attento anche al lato orizzontale della croce stessa. Quindi, il suo messaggio in tutte e due le direzioni era ispirato rigorosamente dalle buone novelle che provengono dalle Scritture, in particolare dalla purezza di intenti e dall’inno all’amore fraterno esaltati dal cristianesimo originario e poi tenuti accesi nei secoli dai cristiani di buona volontà. Parole d’ordine: santificare la giornata con la coscienza della gratitudine e della gioiosa meraviglia per i doni utili e belli del creato, con l’intensità dell’armonia benedicente rispetto al mondo esterno…. e poi preghiera, meditazione, apertura del cuore, fraternità. Il tutto non tanto nello spirito imperativo dei dieci comandamenti quanto soprattutto in quello purificatorio e rivoluzionario delle beatitudini, che suggeriscono non cosa non fare ma quale strada seguire per essere “unti di gioia”.

Le celebrazioni e le iniziative di don Raffaele andavano tutte in questo senso.

La vita parrocchiale, oltre che dalla normale liturgia, era arricchita da un progetto permanente di formazione comunitaria, fatta di incontri, dibattiti ed eventi culturali e spirituali. La sua messa era un’ “ora di religioia”, perché i fedeli vivevano in pieno il senso della comunità, condividendo tra loro l’anelito verso l’alto, trasmettendo frammenti dell’anima nelle preghiere, meditando sulle lezioni di vita quotidiana offerti dalle letture del giorno.

Queste lezioni erano corroborate dai deliziosi “pizzini” distribuiti ogni settimana: luci di Vangelo vivo, testimonianze e suggerimenti d’Amore, tracce beatificanti di guida per un cammino personale e collettivo di purificazione e miglioramento. Questi foglietti, messi uno sull’altro, rappresentano un patrimonio etico e spirituale di straordinario valore, un patrimonio da custodire e trasmettere. Non a caso è nell’aria l’intenzione da parte di qualche fedele di pubblicarne i più significativi e distribuirli alla collettività, magari alla presenza testimoniale dello stesso don Raffaele, che per una volta, anche se conoscendolo ne farebbe a meno, dovrà stare sotto la luce dei riflettori non solo come ministro: e lo accetterà, sapendo bene che anche quello sarà un ministero…

Perciò, vogliamo tutti quanti intendere che il suo sia il congedo da un incarico, ma non dalla vicinanza pastorale, amicale e spirituale che tanti legami e tanto affetto ha stabilito in questi anni. Vogliamo intendere che egli non sarà più “in un ruolo”, ma in un modo o nell’altro continuerà a condividere con i fedeli momenti altissimi di cultura, spiritualità e umanità.

E continuerà a cambiare le vite delle persone, come testimoniano queste parole di Annamaria Apicella, una delle sue più affezionate compagne di viaggio, che tra l’altro in parrocchia per anni ha avuto l’onore e l’onere di incontri di formazione ed ascolto con gli adolescenti, nel pieno spirito della “Linea Conte”.

Ha cambiato la mia vita!

Come? Lo racconto!

Venivo fuori da concetti arcaici: un Dio punitivo attraversava le mie ore di cammino.

Durante i suoi ascolti tra Messe recitate in ordine e orari perfetti, tra libriccini “confezionati” da lui con l’aiuto di volontari, mi guardavo intorno e sentivo il silenzio. Una meraviglia!

Il nostro ascolto procedeva e raggiungeva il cuore!

Le preghiere dei fedeli erano il frutto del vissuto di ognuno di noi. Come pure l’omelia, forte e decisa mentre rompeva vecchie regole. Una lezione di vita: succo di un amore evangelico.

Raffaele è entrato nella mia vita in punta di piedi così come sa fare… quando avevo 18 anni.

Da allora è stato il punto di riferimento nel percorso non sempre facile della mia vita.

Il suo ascolto era vero, sentito: apprezzava la sincerità del cuore.

Con lui Cristo non è lontano. È uno di noi che sa vivere il quotidiano con verità di vita.

Una volta gli chiesi dove fosse Cristo. E contemporaneamente mi rispose a cuore aperto “È con noi, dentro di noi”.

Il nostro rapporto di profonda semplicità. Era come scavare nell’interiorità quando diceva Messa.

Le sue Messe! Di notevole cultura!

Passaggi sinteticamente profondi: dall’altare al cuore aperto e pronto a ricevere per poi trasformare in azioni. Quelle azioni che erano frutto del suo ascolto. E il tutto veniva catturato per giorni futuri diversi.

E il quotidiano diventava più leggero. Aveva già il sapore del futuro. Un futuro in prospettiva di arrivi divini.

La divinità altrove!

Pur con le amarezze del congedo, ci sembra però cosa buona e giusta anche aprire il cuore in un abbraccio di benvenuto al successore di Padre Raffaele, don Giuseppe Nuschese, giovane carico di energie, di entusiasmo e di cultura, che a dire di tutti rappresenta una delle perle nascenti più luminose della Chiesa territoriale. A lui dedicheremo tra qualche giorno uno spazio specifico, per imparare a conoscerlo e stabilire un approccio il più possibile fecondo, in un cammino di ideale continuità e diversità rispetto al solco tracciato da Padre Raffaele.

CAVA DE’ TIRRENI (SA). Ricordando Gino Palumbo, l’”aluisinus avis columba”, come lo chiamava Gianni Brera

Quando nel 2016 ho dato alle stampe il mio saggio antologico su il Calcio nella Letteratura italiana (ndr, Antonio Donadio Calcio d’autore da Umberto Saba a Gianni Brera: il football degli scrittori. Postfazione di Alessandro Bonan, Editrice La Scuola 2016 pagg. 153 Euro 11,00) tra grandi poeti e scrittori (Saba, Pasolini, Gatto, Arpino, Guareschi, Eco, …) certamente alla “voce” grandi giornalisti sportivi, non poteva mancare il nome di Gino Palumbo.
E nel ricordarlo oggi a 100 anni dalla nascita e plaudendo al progetto del Comune di Cava, città di nascita di Gino, di volergli rendere doveroso omaggio, appena il Covid lo permetterà, con un premio giornalistico a lui intitolato, mi fa piacere riportare alcuni passi dal succitato saggio in cui, seppure brevemente, ne tratteggio l’inconfondibile stile sottolineando che la sua scrittura fu, per scelta, una scrittura lineare, chiara, godibilissima, popolare. Affermava, infatti: “Tutti devono capire tutto”. Si menziona il non facile rapporto umano e professionale che ebbe con Gianni Brera, altro grande del giornalismo sportivo fino a ricordare ciò che disse Palumbo in una delle sue ultime interviste su come il calcio moderno (fine anni 80) stesse mutando, e secondo lui, in peggio.

“ [ ]Gianni Brera (Il Giorno) / Gino Palumbo (La Gazzetta dello Sport). Due grandi giornalisti –agli antipodi su tutto- … vissero un forte, viscerale, confronto/scontro (“Per mero istinto mediterraneo scese subito in lizza contro il Giorno assumendone le tesi contrarie… Arrivò pure allo schiaffo forte e solenne…”). Brera, pavese, tifoso dell’Inter, era per il calcio maschio, virile, per un giornalismo che fosse sopratutto tecnico; Gino Palumbo, “napoletano”, ma nato a Cava de’Tirreni in provincia di Salerno, tifoso del Napoli, era per il calcio spettacolo, l’eleganza unita alla tecnica e alla correttezza del gesto atletico. Contro la vulgata secondo cui il giornalismo sportivo è giornalismo minore, non condivideva gli atteggiamenti di taluni intellettuali che snobbavano il gioco del calcio, ritenuto troppo popolare:

Il giornalismo sportivo ha saputo dialogare con la gente ne ha conquistato la fiducia; e’ scrittura chiara, diretta, incisiva: attrae i giovani. Spesso la Gazzetta fa da primo approccio alla lettura: e crea “clienti” anche per gli altri quotidiani “

Il calcio è un gioco adatto a ogni fisico, razza, temperamento, Chiunque può eccellere: alto, basso, robusto o mingherlino. E qualcuno riesce a diventare campione calciando soltanto con un piede. Poi c’è il fascino dell’imprevedibile: basta uno spostamento di pochi millimetri al momento dell’impatto tra scarpa e pallone per mandare il tiro in gol o sul palo. E spesso una rete fortuita decide la partita.”

Scrittura lineare, chiara, godibilissima, popolare per scelta: “Tutti devono capire tutto”, venata di visioni ammantate, a volte, di un certo romanticismo decadente.

Brera affermava:

Gino Palumbo (il mio Aluisinus Avis Columba) non era uno scrittore: aveva un suo lessico piano, uno stile pacato, senza voli. Si accontentava di esser chiaro; ma diceva cose tanto semplici da non dover proprio temere il contrario”.

Nell’ultima sua intervista, primavera del 1987, Palumbo traccia, senza nascondere un pizzico d’amarezza, il ritratto di uno sport ormai terreno di conquista di sofisticate riprese televisive. Quasi profeticamente presagisce l’odierno gioco del calcio, sempre più ipotecato dal sistema mediatico.

Le telecamere frugano tra i muscoli degli atleti, ritraggono i dettagli di ogni impresa, evidenziano capolavori tecnici un tempo impercettibili. Ogni mistero è svelato, e lo sport smarrisce le suggestioni poetiche, i campioni mostrano distacco professionale.”

Originalità di scrittura e differenzazioni tra mero pezzo giornalistico e inventio narrativa/poetica, finiscono, così, col fondersi.

CAVA DE’ TIRRENI (SA). Ricorre oggi il centenario della nascita di Gino Palumbo, giornalista sportivo