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CAVA DE’ TIRRENI (SA). La scomparsa di Aldo Masullo, un grande della Cultura nazionale, carissimo concittadino onorario dei cavesi

Tra le tante care persone che in questo sconvolgente tempo del coronavirus ci hanno lasciato ed alle quali non abbiamo potuto dare il giusto saluto, si è aggiunto nei giorni scorsi uno degli intellettuali più importanti della cultura italiana della seconda metà del Novecento, cioè il filosofo napoletano Aldo Masullo.

La sua scomparsa, avvenuta alla veneranda età di novantasette anni, riguarda direttamente noi cavesi, perché, non dimentichiamolo, sei anni fa abbiamo avuto l’onore di proclamarlo nostro concittadino onorario. E ne avevamo ben donde, perché Masullo tante volte negli ultimi anni è stato a Cava, ad illuminarci con la luce del suo pensiero, sempre lucidissimo, e col calore della sua amicizia.

A fare da gancio, il nostro Paolo Gravagnuolo, una delle luci più vivide della nostra Città, che da quando ha fondato il Centro Studi “G.Filangieri”, feconda fucina di pensiero e ricerca, ha stabilito con Masullo un ponte di comunicazione costante e ne ha fatto una delle sue stelle polari. Ma il rapporto veniva da lontano, da un’amicizia di famiglia radicata negli anni. E allora, in ringraziamento a Paolo per avercelo “donato” ed in omaggio a Masullo per essersi “donato” a noi, ci sembra cosa buona e giusta riportare qui un estratto delle dichiarazioni di Gravagnuolo, fatte a cuore caldo nelle ore immediatamente successive alla notizia della sua scomparsa e in parte già pubblicate sulla stampa locale.

Ecco il testo della dedica redatta di suo pugno da Aldo Masullo sul Libro d’oro del Centro Studi “Gaetano Filangieri” di Cava de’ Tirreni:

La cultura è la condizione di ogni speranza di rinascita. L’incontro con gli amici del Centro Studi “Filangieri” è un momento promettente di questa riapertura alla speranza. Sicuro della sua creazione, lascio il mio fervido augurio, Aldo Masullo.”

Era la prima di numerose volte in cui ci saremmo incontrati a Cava, anche se l’avevo conosciuto negli anni indimenticabili trascorsi a Napoli: oltre alle conferenze ascoltate spesso in prima fila in vari contesti di cultura, avevo trascorso un paio di mattinate nel soggiorno della sua luminosa casa in viale Michelangelo al Vomero.

Avevamo quasi l’identica distanza di età che mi separava da mio padre Alfredo, suo amico ed estimatore da lui a sua volta stimato. Anche con mio padre il rapporto era giocato sul duplice piano del Maestro-allievo, insieme a quello dell’amico.

Per la formazione di mio fratello Luigi, laureatosi in
Filosofia, era stato un punto di riferimento ineludibile.

Ha raggiunto la luce un grande uomo a poche ore dal 25 Aprile, che lui interpretava come una Festa non divisiva.

Forse avrà sorriso di questa coincidenza e avrebbe detto: “Non temete, non avevo intenzione di assumere su di me tutte le luci dei riflettori. Pensate piuttosto a resistere per dare di nuovo spazio alla fiducia nella vita e nei contatti umani”.

Arrivederci, mio carissimo amico.

Carissimo amico, certo, ma anche grande figura di riferimento dell’intera cultura nazionale. Oltre a numerosi scritti filosofici, oltre all’attività fecondissima come Direttore del Dipartimento di Studi Filosifici dell’Università di Napoli, è stato verso la fine del secolo scorso più volte senatore della repubblica e anche parlamentare europeo. E aggiungiamoci i suoi innumerevoli interventi su questioni filosofiche, etiche e di stretta attualità sia sui giornali e sulle riviste che in televisione e in pubbliche conferenze…

Insomma, un grande della Cultura e della comunicazione, che noi abbiamo avuto la fortuna di “goderci da vicino” in quegli anni di ponte fecondo con il Centro Filangieri.

Ogni volta che avevamo piacere di ascoltarlo, rimanevamo sempre tutti incantati ed ammirati dalla lineare chiarezza con cui egli infiorava concetti ed idee ad alto tasso di profondità, dalla passione con la quale difendeva e propugnava i più alti valori collegati alla dignità, alla fratellanza, alla democrazia ed all’intelligenza umana. Nonostante l’età particolarmente avanzata, parlava in piedi, dritto come il suo intelletto, a volte anche per quasi un’ora e senza mai perdere né far perdere il filo del discorso. Come dimenticare, ad esempio, quando venne al Social Tennis Club, sempre invitato dal Centro “Filangieri”, a parlare di Giordano Bruno, maestro di anarchia, in rapporto al suo ultimo libro, incentrato su quel filosofo nolano che era una delle stelle polari del suo pensiero ed uno dei simboli più alti della dignità umana violata? Come dimenticare la “bellezza” del ragionamento di attualizzazione che egli ci fece in quell’occasione?

Per capire Bruno, ci disse, dobbiamo capire il suo tempo così come egli lo pensa e lo descrive, ma dobbiamo renderci conto che comunque nell’incontrare i pensieri del tempo di Bruno noi ragioniamo secondo i pensieri del nostro tempo e quindi l’esercizio di comprensione deve risultare coscientemente dal confronto tra i suoi pensieri del suo tempo e i nostri pensieri del nostro tempo. La chiave di volta che ci prospettò fu il concetto di crisi radicale: quella del tempo di Bruno, in cui stava nascendo la modernità, e quella del nostro tempo, in cui la modernità sta estinguendo la sua spinta in avanti. Nei momenti di crisi il pensare autonomamente, non conformisticamente e neppure in modo politicamente corretto, anche a forte rischio personale, è una chiave culturale vitale. Bruno lo ha fatto, noi stiamo nelle condizioni di farlo, perciò Bruno è compagno di tutti noi. Ma lo è anche nella sua esaltazione della dignità del singolo attraverso l’intelletto, di cui ognuno di noi è portatore sano. Per questo siamo tutti potenzialmente liberi, ma la nostra libertà non avrebbe senso se non nella Comunicazione e nelle irrinunciabili Relazioni sociale, in cui è necessario che continuiamo ad essere liberi, pur all’interno dei ponti che ci legano a tutti gli altri. Valga al riguardo la regola delle Tre C: Convitto, Communione, Concordia.

Chiare, in questi concetti, le profetiche anticipazioni delle dottrine illuministiche, coinvolgente soprattutto il legame, nel nostro pensiero del nostro tempo, con la necessità dei diritti umani…

Bellissimo! E, di fronte a lui mentre parlava, noi, a bocca e a mente aperta…

Ha parlato fino alla fine, il nostro Masullo. Ha parlato anche di questi svanganti tempi del coronavirus, in un’intervista telematica del 26 marzo scorso su “Napoli notte”, in cui, oltre ad esprimere il disorientamento di tutti ed a denunciare i tentennamenti di chi ci guida, preannunciò il dramma economico sociale che oggi stiamo cominciando a vivere in tutta la sua sconvolgente pericolosità: La preoccupazione è forte…. Le tempeste economiche possono essere più distruttive della guerra stessa, rendere feroci le vite dei popoli… Il contagio irrompe su una situazione già critica. Gli ultimi anni hanno segnato una rottura, sono venuti meno vecchi capisaldi sociali, anche rapporti politici. Soprattutto l’Occidente è da tempo in una crisi dove alla rottura dei vecchi modi di essere non corrisponde neanche un controllo del nuovo: fra il “come eravamo” e il “come saremo” è una navigazione a vista. Dobbiamo pensare a come riprenderci, ma una prefigurazione attendibile non si può fare. Ecco perché si parla di “cigno nero” o tempesta perfetta. Il virus rischia di trasformare le rotture col passato in una unica grande mazzata per l’umanità.”…

Erano già una mazzata quelle parole, che ci facevano ancora più male perché si aggiungevano alle ferite taglienti di ogni giorno inferte dal virus. Sono ancor più una mazzata oggi. E sta a noi ammortizzare le mazzate ricevute e renderle meno dolorose.

A contribuire in tal senso, non più la parola diretta, ma certamente il pensiero e i valori del nostro grande filosofo.

Caro Aldo, cercheremo di essere degni delle tue parole. Grazie di tutto… e che ti sia lieve la terra …

CAVA DE’ TIRRENI (SA). Coronavirus: una Messa dal Castello, benzina di speranza, ricordando la peste del 1656

Un segno forte di identità e di speranza, carico di evocazioni storiche e sociali, l’evento che ha aperto la Settimana Pasquale a Cava de’ Tirreni.

Alle 9,30 del 5 aprile, Domenica delle Palme, Monsignor Orazio Soricelli, Arcivescovo dell’Arcidiocesi Amalfi-Cava de’ Tirreni, ha celebrato la Messa nella Cappella di Monte Castello. Una Cappella quasi vuota, come si addice a questi tempi, alla presenza di pochi addetti, come il concelebrante don Rosario Sessa, il cerimoniere don Pasquale Pagano, il Vicesindaco Armando Lamberti, Mario Sparano Presidente dell’Ente Montecastello, promotore dell’iniziativa, il Coordinatore della Protezione Civile Francesco Loffredo,

Vuota la Cappella, ma piena e attenta tutta la Valle Metelliana, grazie al microfono che ha espanso parole e suoni tra Borgo e casali, e grazie al collegamento in diretta con le antenne di Quarta Rete RTC, che hanno idealmente aperto a tutti le porte del Castello. Soprattutto, pieni i cuori, perché quella benedizione che ha concluso il rito ricorda la benedizione analoga avvenuta al tempo della pestilenza che dimezzò quasi la popolazione cavese nel 1656. Allora, il parroco dell’Annunziata, don Angelo Franco, salì in processione sulla montagna per benedire il popolo e scongiurare il diffondersi del contagio e della strage.

Nell’ìmmaginario popolare, la processione ci fu durante la peste e frenò il disastro, facendo gridare al miracolo e aprendo la strada alla rievocazione che da allora ogni anno si effettua durante la Festa del Santissimo Sacramento, nell’Ottava del Corpus Domini. In realtà, come attestano alcuni autorevoli storici, Salvatore Milano in testa, pare che la processione reale ci sia stata l’anno successivo, per ringraziare dello scampato pericolo e chiedere di essere preservati in futuro da flagelli del genere.

La discussione è ancora aperta, ma sinceramente possiamo dire che questo non cambia nulla rispetto al significato e alla portata della Celebrazione di domenica 5 aprile. Tutti i cavesi, al diffondersi della benedizione ed al suono delle campane (di recente recuperate, anche grazie all’iniziativa del benemerito don Peppino Di Maio, che da poco ci ha lasciati), si sono sentiti uniti da questo filo di dolore e di speranza che li lega ai loro antenati e soprattutto al filo di dolore e di speranza che li lega tra loro oggi, sotto la tempesta del Coronavirus.

E l’attesa, come pure l’emozione dell’evento, sono state forti. Forse, non ci si aspettano miracoli, così come giorni fa in fondo non era il miracolo, ma il “sostegno” di fede e di speranza che si richiedeva nella preghiera “cosmica” e nella benedizione urbi et orbi di Papa Francesco nella Piazza San Pietro vuota. Ma episodi così significativi non possono che essere carezze di speranza, benzina di quell’energia interiore e di quel consolatorio tenersi per mano di cui tanto abbiamo bisogno in questi giorni.

Non sono segni di potere, ma è il potere dei segni che agisce. E lo stesso Mons. Soricelli, oltre al naturale slancio di fede che anima il credente, ha parlato e operato in tal senso. Ha condiviso umanamente il dubbio e le incertezze e le paure di tutti, ha evocato religiosamente la forza d’animo di Gesù Cristo nell’Orto degli Ulivi e nel corso di tutta la Sua Passione, ha auspicato l’uscita dalla tempesta, ha invitato universalmente alla reazione personale improntata all’Amore e alla Misericordia, unici palliativi possibili rispetto al pericoloso virus della rabbia e della chiusura interiore.

E in quei momenti non poteva non venirci in mente che una settimana dopo la Benedizione a San Pietro anche Papa Francesco, nel suo energetico appello di venerdì 3 aprile alla televisione, si è mosso in tale direzione, aggiungendo, come è suo solito, il richiamo alla Tenerezza e stimolando, con un’espressione “elettrica”, la creatività dell’amore.

Alla fine della cerimonia, tra suono di campane e inno nazionale, l’antidoto energetico è rimasto nell’aria. Speriamo che ci aiuti il più possibile la reattività di ognuno di noi, credente o non credente che sia.

Intanto ci apprestiamo tutti alla Settimana Pasquale, una Pasqua che nessuno dimenticherà. Domenica 12 aprile suoneranno di nuovo le campane per la Resurrezione del Cristo. Ma purtroppo sappiamo bene che non potrà ancora essere la “nostra” Pasqua, cioè il tempo in cui questa pesantissima corona ci cadrà finalmente dalla testa.

Ma, anche se più tardi, la nostra Pasqua verrà… Contiamoci e intanto non dimentichiamo di offrire il nostro contributo.

Verrà questa benedetta Pasqua. Adda sulo passà ‘a nuttata … e così sia.

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La continuazione liturgica della Settimana Pasquale prevede, in ambiente chiuso e con trasmissioni mediatiche:

Venerdì 10 aprile la celebrazione della Passione di Cristo, alle ore 16,30;

la Veglia Paquale alle 22,30 di sabato 11 aprile;

la Santa Messa alle 9,30 di Domenica 12 aprile.

Musica e fumetti ai tempi del Coronavirus. I Puzzle arrivano sul web con le loro cover a colori

C’è chi si annoia, chi si attacca alla tv, chi ancora decide di fare attività fisica. E poi ci sono loro, che fanno di questa quarantena un’occasione per mettere in gioco il proprio talento e la propria passione per la musica. I Puzzle arrivano sul web con cover e vignette simpatiche.

Da soli due giorni sul web ma la voglia di continuare a cantare e a creare è sempre più. Raffaele e Andrea Scocozza sono fratelli, due giovani ebolitani, amanti della musica. Voce e piano divengono il passatempo giusto per affrontare queste giornate. Cantano, suonano, rivisitano canzoni, ma non solo. Grazie alle capacità creative, i ragazzi decidono di mettere nero su bianco quanto vivono in questa quarantena con vignette simpatiche. Un esempio per i tanti giovani? Si, l’obiettivo dei ragazzi è quello di far tesoro di questo momento particolare della vita di ognuno per mettere in gioco il proprio talento e non annoiarsi. Un mix perfetto tra i fumetti di Topolino e il movimento artistico degli anni 50/60, giochi di colori e disegni che catturano l’attenzione di chi ha come passatempo la home di Facebook.

“Ci siamo sempre chiusi nel nostro studio di casa per registrare – commentano i Puzzle – In queste ultime due settimane le ore passate al pianoforte sono aumentate e abbiamo deciso di trasformare la noia da coronavirus in produttività. Cantiamo, suoniamo e condividiamo. E’ il momento di comunicare al mondo positività. Siamo giovani e vediamo il futuro davanti a noi. Siamo convinti andrà tutto bene”.

La prima cover dei Puzzle è Mondo di Cesare Cremonini. Un messaggio perfetto di speranza che vuole vedere un mondo, quel pianeta che tanto amiamo e che ci piace, brillare ancor di più quanto prima. Le mani di Andrea toccano i tasti del pianoforte e la voce di Raffaele accompagnano i tre minuti di video. I due artisti hanno deciso di non “metterci la faccia” con la decisione di voler comunicare solo la propria musica e l’ironia con il disegno e i colori.

“Avete presente i pezzi di un puzzle? – racconta Raffaele – Si devono incastrare perfettamente affinché nasca la meraviglia di un’immagine limpida e ben dettagliata. Abbiamo deciso di dare questo nome al gruppo proprio perché ci sentiamo due pezzi di un enorme Puzzle chiamato musica”.

Un cantante – Raffaele – e un pianista – Andrea. Insieme, in uno studio arredato da pianoforte a coda e microfono shure amord, vinili e giradischi, danno vita alla musica. Si può dire che sono nati con le note musicali.

“Papà che strimpellava la chitarra per farci addormentare e la voce di nostra madre che cantava la ninna nanna – continua Andrea – Siamo cresciuti e quella semplice passione, dopo anni di formazione è divenuta il nostro pane quotidiano”.

I Puzzle rivisitano cover, rendendole loro, per poi approcciarsi a qualcosa di ancora più personale, la loro musica, i loro testi, le loro melodie. Compongono, creano, tra note, risate e riflessioni.

CAVA DE’ TIRRENI (SA). Fascinoso e suggestivo il “Ritorno a Itaca” del Gruppo “Arte Tempra”.

Ma … stagione tarpata. E ora siamo noi ad aspettare il “ritorno ad Itaca”.


Le evocazioni del titolo, la forza dei personaggi e delle idee, le morbide e spettacolari suggestioni sceniche, il filo potente di una cultura giovane di duemilacinquecento anni fa che ancora oggi parla e insegna. Eccole, le belle coordinate di Ritorno a Itaca, quello che doveva essere solo il terzo spettacolo della stagione teatrale di Arte Tempra e che invece, salvo miracoli difficilmente prevedibili, ne rimarrà come l’agrodolce canto del cigno, datato febbraio 2020 presso l’Auditorium “De Filippis” di Cava de’ Tirreni.

Le coordinate di cui sopra non sono una somma, ma un prodotto. Sono elementi fortemente collegati tra loro, grazie anche alla regia e alla sceneggiatura funzionali e “ricche di anima” di Renata Fusco e Clara Santacroce.

Itaca nel mito antico è l’isola di Ulisse, della sua speranza e del suo ritorno a casa; nella cultura moderna, per dirla con il grande Costantino Kavafis, è il pensiero costante, la ragione e la meta del bel viaggio di ognuno di noi, è il luogo che ci attende “ricchi dei tesori accumulati per strada”. Ricchezze e tesori tutt’altro che materiali, ma carichi del senso stesso che nel cammino ha assunto la nostra esistenza. Perciò Itaca siamo noi, così come Ulisse è l’uomo nella sua odissea e nelle sue esplorazioni esistenziali.

Il “ritorno ad Itaca” dello spettacolo è perciò una specie di “richiamo della foresta”, è la voce delle radici specifiche di tutta la nostra civiltà e nello stesso tempo l’epopea universale della condizione umana e sociale. In questa chiave abbiamo particolarmente apprezzato il lungo e coraggioso “corridoio” iniziale, prefigurazione del “salotto” centrale: parole al minimo, movimenti lenti e solenni, una plastica scena di ondeggianti veli ora composti ora scomposti, immagini in dissolvenza e sovrapposizione della Grecia classica e di quella moderna, musiche elleniche del presente provenienti da lontano e proiettate lontano l’accenno di un pallone che in tutto lo spettacolo passerà tra le mani e forse attraverso i tempi, illuminate cromie oscillanti tra il bianco della purezza di un “paese avido di innocenza”, il rosso delle ataviche passioni di sempre, l’azzurro fiammeggiante di un mare primattore che tanto parla e tanto ha raccontato.

Dal “corridoio” al salotto il passo è stato breve e logico. E ci siamo trovati di fronte a quelle grandi figure della tragedia greca che rappresentano il paradigma della storia di sempre.

Giustamente, la prima è stata Antigone (una forte e determinata Danila Budetta), colei che affrontò la condanna a morte secondo le leggi degli uomini pur di effettuare la giusta, ma vietata sepoltura del fratello Polinice, che aveva aggredito da nemico la natia Tebe, dove era stato generato dall’amore incestuoso di Edipo e Giocasta. Da quel tempo lontano e dopo che Sofocle l’ha immortalata, Antigone è il simbolo non solo della ribellione giusta contro il potere ingiusto e/o “autodeificante” (qui impersonato dallo stentoreo Creonte di Carmine Squitieri), ma anche della donna che lotta per i diritti suoi e per la dignità della persona. È il simbolo della capacità di non avere paura di aver coraggio, quella paura che aveva frenato la sorella Ismene (una efficacemente “fragile” Martina Cicco) e che frena intere masse e milioni di singoli, è il grido dei valori assoluti, delle leggi divine (tra cui la sacralità dei defunti) contro la relatività di quelle umane e “politiche”.

È il potere del segno che si contrappone al segno del potere. E, ci sia consentito, per noi cavesi è anche qualcosa in più, per la presenza nella nostra storia di quella particolare Antigone che è stata Mamma Lucia, che a suo tempo ha rischiato la vita e la reputazione ed ha donato energie e patrimonio pur di restituire alle famiglie i corpi di oltre seicento soldati tedeschi, nemici ma “bell’ ‘i mamma”.

E come non considerare universale la figura e il dramma di Medea, che, abbandonata da Giasone (eroe antieroe nell’interpretazione di Francesco Donnarumma) dopo che ha rinunciato a tutto per aiutarlo a recuperare il vello d’oro, si vendica facendo morire la principessa che egli intende sposare e poi “gli” uccide i figli davanti agli occhi, vivendo lei stessa il dramma di moglie tradita e madre assassina. Un mostro? Non sarebbe stata una delle donne più evocate dalla letteratura e dal teatro….

Innanzitutto, e tale è apparsa anche nell’intensa e come sempre convincente interpretazione di Giuliana Carbone, in linea con la visione euripidea, pur rimanendo in ragione del suo sesso un “ambiguo malanno”, è comunque una donna “usata e gettata”, ferita profondamente nei suoi sentimenti, nel suo orgoglio e nella sua dignità, per cui diventa l’immagine vivente di quanto e come il male generi male, di come chi è oppresso possa poi passare nella schiera degli oppressori. E poi, è una straniera… e come tale considerata facilmente emarginabile…

E che dire di Ecuba, incarnata da Brunella Piucci come una statuaria e maestosa regina del dolore, dopo essere stata sovrana di un mondo? E di Andromaca (la dolente e appassionata Vivian Apicella), moglie amata dell’eroe Ettore e madre del piccolo e dolce Astianatte, scivolata nell’abisso della schiavitù e trafitta dalla perdita, pur se eroica, del marito, e dalla svangante uccisione del figlio? E di Cassandra (un’incisiva Carolina Avagliano), principessa e triste profetessa di sventure, un tempo desiderata da Apollo e ora destinata a vivere “alle ginocchia di Agamennone”? Sono loro, le euripidee Troiane piangenti sulle rovine fumanti della loro patria e in procinto di vivere ore tremende da profughe e da schiave. Sono il simbolo eterno dei popoli oppressi e smembrati, privati di tutto, tranne che della memoria e della disperazione del ricordo e della nostalgia. Nei secoli, non saranno le arroganze dei Greci vincitori a seminare valori, ma la lotta patriottica di Ettore e del “sangue per la patria perduto”, il dolore di chi ha versato tutte le lacrime della storia. La regia di Renata Fusco e Clara Santacroce ha ben messo a fuoco questo dramma individuale e collettivo, seme di libertà nell’immaginario futuro, ora giocando coi veli, ora formando i grappoli di donne ora smembrandoli, ora accentuando il ruolo nodale del coro, sempre concentrando l’attenzione sulla disperazione dei volti e le grida di dolore che da essi esplodevano,

A tutto questo aggiungiamo la consueta qualità degli altri interpreti e del gruppo, come sempre affiatato nei movimenti e nei tempi delle “coreografie parlanti” di Renata Fusco: oltre a quelli già citati, Antonietta Calvanese, Luca Capaldo, Lucrezia Macri, Simona Pagano, Manuela Pannullo, Gian Maria Salerno, Alessia Trezza, Giulia Tramice, Lella Zarrella. A sostanzioso corredo, ricordiamo gli inserimenti suggestivi e appropriati delle poesie e dei testi di autori moderni, da Kavafis a Seferis, da Fostieris a Vrettakos a Patrikios, i cammei di versi e parole greche, le musiche ariose e appropriate, e avremomo il quadro dell’ennesimo “respiro pieno” del teatro, della cultura e del linguaggio offerto da questo campo fecondo che è stabilmente l’Arte Tempra.

E si spiegano gli applausi intensi e compiaciuti che ancora una volta hanno gratificato questo lavoro. L’Arte Tempra è sempre bello sapere che c’è. E speriamo che ci sarà ancora al più presto, nel nebuloso dopoguerra post-Corona prossimo venturo. Intanto anche noi ora vaghiamo nel mare, e tutti noi abbiamo la stessa Itaca da sognare, nell’attesa del Grande Ritorno …

CAVA DE’ TIRRENI (SA). “Una famiglia quasi normale”: successo per la nuova performance comica di “Arcoscenico” E ora… se si aggiungesse qualche freccia all’Arco … scenico?

E ora … se si aggiungesse qualche freccia all’Arco … scenico?


In questi tempi di forzata interruzione ed in attesa delle due Pasque (quella religiosa di resurrezione e quella sperata del ritorno “fuori casa”), possiamo trovare il silenzio giusto non solo per la cronaca ma anche per una riflessione su questa seconda stagione di coprotagonismo dei giovani di Arcoscenico, compagni di viaggio della Chioccia Venditti e della sua storica compagnia del Piccolo Teatro al Borgo.

L’ultima prova, Una famiglia quasi normale (29 febbraio e 1 marzo, presso il Salone dell’Ex Seminario in Piazza Duomo a Cava de’ Tirreni) una storia farsesca di litigi familiari e tresche amorose consumatasi in una famiglia “allargata” con nonni e consuoceri, ha offerto varie conferme e nello stesso tempo induce a stimolare qualche necessaria “spintarella”.

In sé, è una delle migliori prove della serie comica di Arcoscenico, con fantasiose citazioni da teatròfili, un ritmo brillante che punta più all’equilibrio che al picco, una prova attoriale dell’intera compagnia che ogni volta conferma un significativo passo avanti. I tre big della “Trimurti” (Luigi Sinacori, capocomico autorregistattore, Gianluca Pisapia e Mariano Mastuccino) formano un ménage a tre affiatato e capace di bucare la scena, anche se (o perché…) si mantengono sui loro cliché preferiti.

In questo spettacolo Luigi e Gianluca sono due “neilsimoniani” vecchietti irresistibili, due consuoceri “anziani” (magia del teatro per due così giovani), in cozzo costante per diversità di caratteri e necessità di coabitazione. Luigi è nervosamente brontolone, ma tutto sommato interessato a fare andare avanti la barca, Gianluca è un vecchietto ancora con gli ormoni in giostra, quasi una maschera del vecchio “rattosello” di antico stampo atellano o plautino; vedovo in parte consolabile, è predisposto all’amore a pagamento e capace di amorose complicità col nipote, e tutto sommato un po’ “autofallico”, ma anche lui una persona ricca di umanità. In un ruolo non facile, anche per la necessaria deformazione della voce, Gianluca è riuscito a rendere il personaggio con adeguata vis comica unita ad una postura credibile ed agli abituali “gianlucheschi” stralunamenti. Mariano Mastuccino è il marito padre di famiglia che con la consueta moderazione attoriale cerca di trovare un equilibrio tra le intemperanze dei vecchietti, le beghe familiari classiche e le scenate della moglie (una vivace Francesca Cretella ben predisposta agli svenimenti), la quale non accetta le fughe d’amore del figlio (un misurato Federico Santucci), che per lei rimane un lattante di venticinque anni, mentre invece si imbosca con Enrica Auriemma, alias Liolà (chiara citazione dell’esplosivo “gigolo” pirandelliano), una ragazza carica d’amore ma prostituta per condizione sociale, una bella ragazza, piumata, sexeggiante proguadagno e dotata di un furbesco pianto “antiscopa”. Con loro, in una breve ma convincente apparizione, anche il serioso notaio Luca Ferrante e la quasi marchesineggiante segretaria Anna Cortone d’Amore.

Al di là della prestazione della compagnia, vorremmo però evidenziare, in rapporto a questo spettacolo, la simpatica, ben riuscita e fantasiosa contaminazione dell’intervento – citazione della pirandelliana Madama Pace, tenutaria di bordello dai pirandelliani Sei personaggi, qui napoletaneggiante anziché spagnoleggiante, che per convincere la ragazzina a non lasciare “il lavoro” le impone di inginocchiarsi, a mo’ del meroliano zappatore. La performance è stata affidata, con buon risultato, a Licia Castellano, un’attrice che, come la sempre brillante Pina Ronca, qui pettegola, invasiva e a volte devastante portinaia, assume nella compagnia un ruolo di caratterista, ma secondo noi entrambe potrebbero essere sperimentate anche in ruoli di maggiore respiro e profondità.

Questa considerazione ci fa aprire il discorso su una finestra riguardante proprio le conferme e le possibili prospettive legate al futuro dei nostri arcoscenici.

Innanzitutto, è confermata la capacità di Luigi Sinacori di scrivere storie brillanti e scoppiettanti, con un format quasi consolidato: microcosmi casalinghi in condomini con vasi comunicanti, tensioni personali e brontolii permanenti derivanti da piccole incompatibilità caratteriali intense ma non incomponibili, piccoli segreti e vizietti, intrighi economici ed amorosi, egoismi e trasgressioncelle alla fine perdonabili. L’intrusione del macrocosmo esterno in questo mondo “interno” ora fa venire a galla i problemucci ora funge da chiarificatore e da smantellatore dei pregiudizi. Tutto questo può essere sufficiente a creare uno spettacolo coinvolgente e gradevole, ed è quello che succede generalmente negli spettacoli targati Sinacori, quelli della serie “La gente vuole ridere”. Quell’ora e mezza trascorsa con le sue storie si beve con facilità e alla fine si applaude volentieri la compagnia e ci si ripromette di tornare a vederla.

Ma ora, evidenziati alcuni aspetti positivi, occorre dare la “spintarella”. Le storie che egli racconta, anche se mettono vagamente a nudo alcuni difetti dell’uomo e della società, risentono molto delle leggerezze tipiche della farsa d’altri tempi, in stile scarpettiano o in parte peppinodefilippiano, con personaggi e situazioni che appartengono più a quei tempi che ai nostri tempi. Del resto, anche Una famiglia quasi normale è ambientato, senza particolare sviluppo, negli anni ’70 del secolo scorso.

Salvando in gran parte questo stile autoriale, un salto di modernità in più non guasterebbe, soprattutto in uno scrittore così giovane. E parliamo dello stesso autore che nel bellissimo pur se “difficile” Hope dello scorso anno è stato capace di scrivere e recitare molto bene un testo dal sapore beckettiano, ai limiti dell’assurdo, ma con il respiro dell’universalità di una certa condizione umana.

E non dimentichiamo che in Arcoscenico c’è anche un altro autore, Mariano Mastuccino, che, anche lui in Hope e poi anche in Jude, ripetuto e rinnovato quest’anno, è stato in grado, scrivendo e recitando bene, di mordere situazioni scottanti come quella dei migranti o una storia sempre deflagrante come la Shoah.

Non diciamo questo per sollecitare la dedizione solo a spettacoli di qualità ma di nicchia, quanto per ricordare ai nostri cari “arcoscenici” che sono oramai maturi per arrivare a delle sintesi: spettacoli brillanti con più “persone” e meno “maschere”, con temi più attuali e approfonditi… e/ o spettacoli d’impegno con elementi di alleggerimento pesante e apertura di comunicazione. Della serie: La gente vuole ridere… ma con un po’ di zucchero non rifiuta di pensare…

Non limitiamoci però all’aspetto autoriale, ma apriamo una finestra su quello attoriale e, implicitamente, registico. Come stanno dimostrando con i progressi evidenti spettacolo dopo spettacolo, i tre della Trimurti Arcoscenica diventano sempre più affiatati tra loro e disinvolti sulla scena. Ci riescono più facilmente quando, usando una vecchia terminologia oggi forse disusabile, fanno gli “attori maschi” , cioè adattano i personaggi a se stessi o al proprio cliché più che se stessi ai personaggi. Secondo noi, potrebbero anche cimentarsi di più a fare gli “attori femmine”, cioè interpretare nel senso più completo personaggi costruiti da altri come l’autore li intendeva, ferme restando le proprie specificità recitative. Hanno già dimostrato in qualche momento di saperlo fare, come ad esempio nelle partecipazioni agli spettacoli di Venditti e in parte anche in Hope e Jude, lavori scritti da loro ma come se fossero un altro da sé. Una riprova ce l’avremo nel prossimo Il Sindaco del Rione Sanità (se ci sarà veramente il “grande ritorno”), ma ci piacerebbe anche vederli, che so, in un Pirandello brillante: per me, l’ideale sarebbe “L’uomo, la bestia e la virtù”. Questa costituirebbe anche una prova importante per Luigi Sinacori stesso per verificare i personali progressi e ambizioni di regia e trovare la famosa sintesi tra “cassetta” e “approfondimento”.

Non sappiamo quanto peso o verità possano avere tali osservazioni, ma noi riteniamo che quando si intravedono germogli e petali di una piantina ricca di humus e protesa verso una bella fioritura, allora una piccola aggiustatina ogni tanto non può che fare bene…

In fondo, si tratterebbe, per i nostri magnifici ragazzi in scena, di aggiungere solo qualche freccia all’Arcoscenico …