CavaViva

Fatti, fattarielli ed eventi della vita culturale a Cava … e dintorni. A cura di Franco Bruno Vitolo.

 

CAVA DE’ TIRRENI (SA). Il Tasso in napoletano: parola del “cavese” Gabriele Fasano

Il Tasso in napoletano Torquato Tasso, il grande poeta cinquecentesco de La Gerusalemme liberata, è uno di quegli autori che si studiano a scuola e sono soggetti ad interrogazione e quindi sono soggetti anche ad istintive ripulse di utilitaristica antipatia. Ma, se si va oltre e, al di là delle valenze squisitamente religiose, lo si considera, al pari dell’Ariosto, come un fascinoso narratore di storie amorose controverse e di vicende fantastiche che oggi starebbero bene anche in un film di successo in 3 D e con effetti speciali, allora non può non intrigarci. E noi cavesi siamo ancora più intrigati dal fatto che egli, sorrentino di nascita, ha di fatto concepito il suo poema durante la permanenza alla Badia ed è rimasto tanto affascinato dalla nostra vallata da dedicarle un’ottava specifica nella Gerusalemme conquistata. Ma l’intrigo diventa ancora più intrigante se scopriamo che del suo poema è stata fatta una celebre, ed apprezzatissima ai suoi tempi nel XVII secolo, traslitterazione in dialetto, anzi in lingua napoletana, proprio da un cavese, Gabriele Fasano. Era di Dragonea, ad essere precisi, ma Dragonea faceva parte di Cava. Ergo…

La riscoperta, pienamente avvalorata dai documenti, è di Vito Pinto, giornalista, critico d’arte ed operatore culturale di punta nel nostro territorio. Il suo scavo è stato totale e l’operazione effettuata, con la spinta e con la firma della Casa editrice Area blu (alias Grafica Metelliana) e dell’Ass. Amici del Santuario di San Vincenzo, ha curato la ristampa anastatica dell’opera Lo Tasso napoletano e nello stesso tempo ha documentato che “GrabieleFasano era di Dragonea e non di Solofra, come si è dato troppo spesso per scontato.

Ne è risultato un lavoro di grande stimolo e respiro culturale, una finestra di eccitante conoscenza per chiunque abbia nel suo DNA ll friccichio della curiosità intellettuale.

Prima ancora della riproduzione, sono illuminanti le pagine introduttive dello stesso Vito Pinto e del prof. Agnello Baldi, signore degli studi letterari e linguistici. Ne spicca il ritratto di una società, quella gravitante intorno alla Cava del Seicento, aperta ed all’avanguardia, ricca di campioni letterari (in primis Gaudiosi e Canali), in contatto con gli intellettuali di tutta Italia. Vi si scopre il rapporto avuto dal Fasano con il Redi e l’intelleghenzia toscana: la sua opera risultò particolarmente gradevole e gradita ed egli fu citato anche nel capolavoro “Il Bacco in Toscana”, per motivi letterari ma anche in seguito ad una quérelle sul confronto tra la qualità del vino napoletano e quello toscano, presunta “pisciazzella”.

Ed emerge un mondo in cui, mancando il riferimento oggettivo di una lingua nazionale parlata, le lingue territoriali, legate all’ uso quotidiano, avevano piena dignità letteraria. La Gerusalemme, opera forse allora più popolare della stessa Commedia, fu tradotta, tutta o in parte, anche in bolognese, in calabrese, in milanese, in veneziano.

Tutto questo senza contare lo “sfizio” che nasce dal confronto tra i versi del Tasso ed a fronte quelli corrispondenti del Fasano, inevitabilmente più vivaci e legati ad una procacità popolaresca. Ed anche il divertimento di scoprire i riferimenti alla Costiera, o perfino le allusioni alle tensioni tra la Cava e Salierno, comme cane e gatto.

Insomma, ce n’è da leggere e da “meravigliarsi”. Ed anche da contemplare, data la conservazione delle magnifiche illustrazioni inserite nel testo originario dell’epoca, a cominciare dalla fascinosa copertina (l’”antiporta”) del pittore- incisore Giacomo Del Po.

E, per tornare all’orgoglio cittadino, c’è da essere triplamente soddisfatti: perché Fasano era uno dei nostri, perché il testo anastatizzato era presente in quel tesoro non sempre coccolato che è la nostra Biblioteca Comunale, e perché è stato recuperato oggi, con un’operazione in controtendenza rispetto alle becere marmellazioni della cultura e della non cultura.

Insomma, “l’Intelligenza liberata”…

CAVA DE’ TIRRENI (SA). Monte Castello: la Messa dei pistoni e la mangiata più amata

Per molti, da sempre, la giornata sparante e mangiante e socializzante sul Castello è “il” momento clou della Sagra, insieme con la processione serale del Vescovo per la benedizione sulla montagna in ricordo di quella benedizione del  1656 che secondo la tradizione scongiurò l’avanzata della pestilenza che devastava Cava.

Per tutti i cavesi svegliarsi il giovedì mattina dell’ottava del Corpus Domini al rimbombo degli spari dei pistoni inondanti tutta la vallata è l’annuncio ufficiale e beneaugurante della festa più amata.

Per i protagonisti lassù, al Castello, è un assoluto piacere del cuore…e del corpo.

Quella grande croce che troneggia sulla vallata…Quel capannone sotto il quale il Vescovo celebra la rituale Messa delle otto mattutine davanti ad una folla coloratissima, con in testa le autorità ed i capitani dei gruppi in rigoroso costume da parata…Quei classici suoni del rito che grazie all’altoparlante echeggiano sul monte e rotolano con affettuosa gioiosità per tutta la valle… Quei pistoni in fila davanti alla Chiesetta in attesa di benedizione e già attrezzati per le cariche e gli spari di tutta la giornata. Quel pane della concordia, benedetto e poi spezzato tra i regi capitanei dei gruppi. Quel saluto benedicente che dà fine alla cerimonia religiosa ed inizio al rito laico degli spari ed a quello ancora più laico della colazione abboffante, ma saporitissima.

E poi, quei tavoli imbanditi ed arricchiti da paste e fagioli, soppressate, milza, formaggi, fiumi di vino e tanta allegria. E quelle tradizioni di gruppo che sono veri e propri riti d’amore…

Due per tutti.

La mitica soppressata del Rione Filangieri, alta oltre due metri e tanto imponente da sembrare un palo a sostegno del tendone.

E poi, la pasta e fagioli del Gruppo che tuttora si riunisce in memoria degli storici trombonieri Andrea Armenante e Alfredo Paolillo, inseparabili in vita e nel ricordo, nella postazione est proprio sotto le mura: una pasta e fagioli ancora oggi preparata alle cinque del mattino dalla carissima signora Caterina D’Amato, moglie di Andrea, novantunenne ancora superaccessoriata di amore ed energia. La Super pentola della bontà, insieme con le classiche “melenzane Maradona” sott’olio, preparate secondo la ricetta della suocera Mariuccella ‘a semmentara, è trasportata con senso di affettuosissima e quasi religiosa missione dal figlio Antonio Armenante (uomo di pace solo per un giorno conquistato dalla gioia dell’arma pistoniera, ma solo perché non ha proiettili….) e poi distribuita a tutti gli uomini di buon appetito, a cominciare naturalmente da quelli del gruppo, già di per sé benissimo attrezzato con le sue specialità, in primis la Pasta del Sindaco (Gravagnuolo) e la magnifica milza, forte della sua tenera morbidezza, preparata da Nostra Signora della Milza.

Il tutto, incorniciato sotto il sole limpido e caldo, ma non bollente, della prima estate tra le colline, con il verde che schizza da tutte le parti ed il mare di Vietri che occhieggia sullo sfondo, ai piedi della croce di san Liberatore.

Insomma, come non amare una tradizione del genere? E soprattutto, come non viverla, o non desiderare di viverla almeno una volta nella vita?

Rimane solo un rimpianto: ma perché nei giorni di Castello il castello è aperto e per il resto dell’anno ti saluta solo con un irridente cancello sempre  chiuso?

Dal buio di una grotta una Luce della Storia. Una targa del Rotary davanti all’antro dove Mamma Lucia custodiva i corpi dei soldati

È rimasta immutata, pur dopo quasi settant’anni, l’emozione suscitata dalla figura di Mamma Lucia.

È emersa in modo chiaro e lampante in occasione della cerimonia svoltasi il 7 giugno u.s. alla Serra di Cava de’ Tirreni, per lo scoprimento della targa davanti alla restaurata caverna in cui Mamma Lucia Pisapia (in Apicella), accompagnata dalla cara amica Carmela Matonti, deponeva provvisoriamente i corpi dei soldati tedeschi  trovati nella zona, in attesa di ripulirli e poi restituirli alle famiglie: uno spicchio di quel grande gesto di umana pietà e di maternità universale che la portò a recuperare e rimpatriare i corpi di oltre seicento giovani, non nemici ma figli di mamma. Un gesto che le fece meritare, oltre a riconoscimenti ufficiali di gratitudine prima dalla della Repubblica di Germania e poi da quella Italiana e dal Vaticano, il titolo affettuosamente tenero di Madre dei caduti.

Il recupero ed il restauro sono stati opera del Rotary Club di Cava, già benemerito di altre operazioni di amore per la Città, in primis le due edizioni di Lady Cava, con la raccolta di quasi ottocento cartoline d’epoca.

È stata una cerimonia solenne, emozionante, infuocata non solo dal sole cocente, che ha fatto pure qualche “vittima”, ma anche dalla presenza delle massime autorità civili e religiose e soprattutto dal calore delle parole spese per esaltare il gesto altissimi e nobilissimo della cara Madre dei caduti.

Oltre al Sindaco di Cava Marco Galdi, all’on. regionale Giovanni Baldi, all’Ass. alla Cultura Teresa Sorrentino, al Vescovo Mons. Orazio Soricelli, al Presidente del Rotary di Cava Emilio Franzese, alle autorità civili provinciali, erano presenti Berthold Muench, Presidente del Rotary di Schwerte, la città tedesca gemellata con Cava, e perfino il Console tedesco Christian Much. Proprio da lui sono venute le parole più forti e più attuali. Ha esaltato in Mamma Lucia lo spirito del popolo, e non è stato il solo, ed ha sottolineato come il potere del segno da lei lasciato sia una proposta molto positiva in un tempo in cui ritornano vecchi stereotipi e si sta diffondendo un pericoloso mormorio antitedesco per effetto delle note e controverse politiche dell’Unione europea. Ha parlato con la passione di chi sente fino in fondo la differenza tra la concordia e la discordia, tra la pace e la guerra. Ed anche per questo le sue parole per Mamma Lucia sono state parole d’amore. Come lo sono state quelle del rappresentante di Schwerte, nel nome del messaggio di Mamma Lucia e dell’amicizia che da oltre trent’anni lega Cava alla sua Città, un simbolo del sereno dopo tante tempeste.

E parole d’amore sono venute dal Sindaco Marco Galdi, che nella sua versatile cultura innamorata delle altre culture ha anche tracciato saluti ed espressioni in tedesco, e dall’on. Giovanni Baldi, che con la voce ancora rotta dall’emozione ha ricordato il trapasso di Mamma Lucia, a cui ha assistito personalmente. Di color emozione anche gli sguardi di Tania Santoro, a sentire nella lettura delle parole di Papà Quirino tratte dal suo libro I morti parlano il vento della memoria e dell’affetto e del rimpianto. E che dire del rimbombo di ricordi che dalla caverna arrivava al cuore del suo “restauratore”, l’Architetto Pio Silvestro, che di Mamma Lucia è stato anche un minicollaboratore, oltre che un teneramente accarezzato bello di mamma? Il fruscio di una storia e di un’identità, di una presenza ancora fortissima legata ad un’indelebile lezione di vita, avvolgeva anche i numerosi familiari di Mamma Lucia, dal figlio Antonio ai nipoti e ai pronipoti. Come cornice, la gratificante soddisfazione del Rotary International – sez. Cava, grande postino d’amore di una Città da amare, ed il sorriso sempre illuminante di Lucia Avigliano, motore metelliano, che del luogo è stata la principale riscopritrice.

Alla fine, è rimasto il segno: la targa e la grotta. Una caverna cacciata fuori dall’ombra, una targa bilingue con tre parole (FaroVorbild, Luce-Licht, SperanzaHoffnung), un monito di Pace e di Forza morale. Sono segni vivificanti, da conoscere e coccolare. E non dimentichiamo anche che sono il segno di un sogno di civiltà e di fede. Un sogno che ognuno di noi può aiutare a coltivare mettendo il suo mattone per abbattere il personale pezzo di muro …

CAVA DE’ TIRRENI (SA). “Un vortice a colori, in volo oltre il velo”. Presentata al Social Tennis di Cava de’ Tirreni l’opera prima di Anna Vittoria Giordano

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Anna Vittoria Giordano con l’editore del libro, Alfonso Bottone, e con il Presidente del Social Tennis Club, Francesco Accarino

Quel nudo di donna della copertina però non è il nudo dell’amore, ma il nudo dell’anima. E quel vortice a colori non rappresenta le sensazioni sensuali, ma le percezioni esistenziali.  È il vortice della vita, che potremmo contemplare in tutta la sua caleidoscopica bellezza se riuscissimo a rimanere in equilibrio al suo centro, da dove si gode tutto il panorama dell’emozione e non si cade. Abbiamo in noi le forze fisiche e l’energia interiore per farlo. Quel vortice si può assaporare fino in fondo, se ci rendiamo conto che è solo la rampa di lancio per realizzare noi stessi volando fuori di noi, prima verso l’altro e poi verso l’oltre, verso quel divino che dà un senso al tutto.

Insomma, è un cammino dinamico, descritto da Anna Vittoria Giordano con una serie di liriche che prendono corpo, più che dal frammento singolo, proprio dal legame di pensiero che le unisce, così come i suoi versi sono legati tra loro in rime baciate, che oggi potrebbero sembrare obsolete, ma che sono organiche alle strutture ed alle esigenze espressive proprie dell’autrice. Sono versi a carattere gnomico, una forma di pensiero poetante che, pur se vi è sottesa una fantasia a colori, preferisce mostrarsi con le nettezze del bianco e nero della razionalità. Non a caso nel vortice di copertina, pur con tanti colori, manca il rosso, che è il classico colore dell’esplosione e che qui, di fronte a forme emozionali implosive per meglio puntare all’interiorità, è più logico che “si faccia parte”, pronto ad intervenire poi, al momento giusto, a poesia digerita.

Nella catena che collega tra loro le liriche, il cammino prende progressivamente forma, con tutte le sue tappe. Si sviluppa un elastico tra l’io e la sua conquista e il non io con le sue perdite: un elastico tra luce ed ombra, tra assenza ed essenza, che si allunga avendo come stella polare lo squarciamento del velo che copre la nostra interiorità e che ci impedisce di cogliere il senso e la forza piena della vita.

La poetessa come strumenti della navigazione suggerisce innanzitutto di combattere i tre grandi nemici: Ignoranza, Preconcetti e Superficialità. Un vero “tris d’ossi” difficili proprio da digerire. Vinta la battaglia, lo strumento primario diventa il proprio occhio, la capacità di accettarsi, di essere fieri di se stessi nella scoperta o riscoperta delle proprie potenzialità. Guardare avanti, quindi, e non lasciarsi condizionare dalla gente, imparare che nella vita si può scegliere di rotolare o di strisciare, di guardare in basso o in alto, di chiudersi o aprirsi, perché comunque siamo autori di noi stessi. Necessario è sapersi accontentare anche del poco, dedicare le proprie energie            alla scoperta di nuove vie, non farsi sopraffare dall’impatto col gelo, non solo in se stessi, ma anche quando lo si riscontra nell’altro: anzi, è proprio quello il momento dell’empatia e/o di scoprire il dolce che è stato provvisoriamente ricoperto dall’amaro. Una scoperta della gentilezza nella forma e della comunicazione nella sostanza. Insomma, siamo api che devono saper incrementare il nettare e, senza fuggire dal nostro ego, senza assecondarne le tentazioni di chiusura o di eccessiva esaltazione, abituandolo a cogliere il sapore anche della carne senza sale ma nello stesso tempo innaffiando in lui la voglia del sogno.

Utilizzando questi strumenti, recuperando dalle ombre delle falsità complesse le vere luci  della semplicità, riusciremo a superare la solitudine accarezzando il sole oltre le nubi, ad abbracciare la progressiva trinità dello splendore possibile: l’accettazione di se stessi, l’unione con gli altri, l’abbraccio con il Divino. Insomma, la Grande Bellezza di quel puzzle colmo di sorprese che è la Vita, unita alla alla forza irrinunciabile dell’Amore. Un Amore quindi dal sapore non individualisticamente ombelicale, ma illuminato sguardo cosmico verso il Tutto che ci circonda e che si esprime innanzitutto persona umana e nella sua anima.

E così, per dirla con Mario Luzi, Anna Vittoria Giordano, pur nella sua giovinezza mattutina, invita a cogliere del mattino non tanto la radiosità quanto la profondità della luce, che viene da lontano e guarda lontano.

Ed è grazie a questa luce che potremo diventare consapevoli dei colori che indossiamo. Per metterci il vestito bello e sposarci col vortice e, chissà, essere capaci di diventare anche noi vortici. O di generare nuovi vortici.

In fondo, come suggerisce la Giordano, è poeticamente vero che lo stralcio di un monte in lontananza   accende in cuor tuo la speranza        che il treno giusto per te non sia ancora passato,     proprio come tra le nubi il sole non è ancora spuntato… 

CAVA DE’ TIRRENI (SA). Una serata al caminetto della Solidarietà e della Cultura. Al Marte, per una missione in Congo e per il nuovo libro di Padre Celli

Doveva essere una serata di solidarietà. E così è stato. Tanto calore e concreto sostegno, alla Mediateca Marte il 4 giugno scorso, intorno a Padre Giuseppe Caso, il frate cappuccino da oltre trent’anni missionario in Congo e specializzato con la sua comunità soprattutto nell’alfabetizzazione e nella lotta all’AIDS, esercitata con iniziative di prevenzione e di assistenza in un raggio di circa ottantamila chilometri.

Doveva essere una serata di cultura teologica. E così è stato. Tanto interesse intorno a “per Eccessivo Amore”, le tre lezioni divine su lettere di san Paolo (la seconda ai Corinzi e l’ Epistola agli Efesini) e sul biblico Salmo 33, che costituiscono l’ultima opera di Padre Giuseppe Celli, frate  cappuccino di altissimo livello intellettuale e di grande fuoco interiore, che nel corso della sua missione, tra l’Italia e l’Africa (con un lunghissimo periodo trascorso proprio nel Convento San Felice di Cava) ha saputo coniugare “il grembiule” del cristiano militante con lo slancio verticale del mistico fervente.

Doveva essere una serata d’Amore. E così è stato. Amore della solidarietà attiva nell’esperienza di Padre Caso e nel sostegno fraterno che la collettività di Cava da anni offre al suo impegno fraterno per i fratelli d’Africa e per la massima protezione possibile di bambini innocenti aggrediti costantemente dai rischi di malattie, povertà ed ignoranza.  Amore universale nell’elastico Dio-umanità figlia-Dio, filo conduttore del libro di Padre Celli, che parte nel titolo da un’espressione francescana e, attraverso la voce di San Paolo, che in vita è stato prima persecutore e poi convertito e quindi consolato direttamente dall’incontro col Divino e diventato alla fine consolatore degli uomini attraverso l’annunzio della Buona Novella. Amore genitoriale di Dio, che offre la sicurezza di un Padre e la tenera protettività di una Madre. Amore che fa dire a Padre Celli, certo dell’amore divino, “Sono amato, dunque esisto”.

Nel cuore dei numerosi presenti è rimasta anche la memoria di una bella serata insieme, al caminetto della meditazione spirituale collettiva e di una riflessione comune su tematiche come l’uguaglianza degli uomini come figli dello stesso genitore, la potenzialità salvifica del sacrificio e quella redentrice del dolore, l’importanza della mano tesa all’altro, la fondamentale necessità dell’ascolto per poter sentire la presenza dell’altro e la voce dell’oltre, la forza della coscienza e la coscienza della forza che nascono dal fertile campo del silenzio interiore, che chiede solo di essere ascoltato e scoperto.

Un’ora e mezza trascorsa intensamente tra interventi di alto livello, letture coinvolgenti e stimolanti, conversazioni danzanti tra la mente ed il cuore.

Attori di questa serata, che personalmente ho avuto il piacere e l’onore di gestire, oltre a Padre Celli e Padre Caso sono stati: Rita Cardone e Antonio Armenante, organizzatori a nome rispettivamente dell’Associazione Pietre vive (e che pietre e che vivezza in questa prima apparizione!) e del Punto Pace Pax Christi Cava, molto contemplattivo in questo frangente; Lucia Criscuolo, che ha tessuto il filo di un discorso molto incisivo sulla ricerca del sé e della forza d’animo…e di un barile di pazienza di fronte alle  ineluttabili avversità della vita; l’Assessore alla Cultura Teresa Sorrentino (presente anche come Teresa e basta), che ha creato un arco elettrico  volando tra citazioni ad hoc, riflessioni sulle ingiustizie del mondo globalizzato,  meditazioni sulla necessità di Dio, finestre sulla fragilità e sulla crescita dell’uomo di fronte alla sofferenza, con incursioni svanganti nel ricordo di dolorose esperienza personali ai confini dell’oltre; Rosanna Rotolo, che ha reso con efficacia espressiva dei passi molto significativi del libro di Padre Celli (l’apoteosi egualitaria dell’Amore Divino, lo spicchio di cielo salvifico per un’internata di Auschwitz, un affettuoso rimprovero epistolare di Dio). Aggiungiamo anche un fugace, ma intenso e partecipativo intervento del Sindaco Galdi, mescoliamo il tutto ed avremo il ritratto di un incontro che ha seminato calore e frammenti di amore.

Certo, occorrerebbe essere credenti e ferventi per esaltarsi  con convinzione di fronte ad un Amore che presuppone comunque l’esistenza di Dio, ma gli spunti della serata sono stati tanti da donare forti emozioni anche a chi è scettico sulle verità della Fede: l’azione solidale di Padre Caso, lo slancio interiore di Padre Celli, la fruizione dell’elastico tra finito e infinito che è patrimonio di ogni intelligenza umana, la forza creativa della Parola e del Silenzio non potevano non essere trascinanti per chiunque.

In fondo, erano in ballo la sacralità dell’essere e della vita stessa. Valori fatalmente e facilmente comuni. Che hanno volato alto, insieme con le parole degli intervenuti. Anche per questo è stata una bella “serata caminetto”.