PoesiadelNovecento – I Contemporanei

Poesie di poeti noti e meno noti del panorama letterario italiano … di Antonio Donadio

 

I giardini della Minerva di Salerno

Fra i dieci parchi più belli d’Italia 2018, nei versi di Ferdinando Dello Iacono.


Invito a far un “viaggio”. Forse non è un andar troppo lontano o forse sì. E’ un piccolo viaggio “sull’erta ai giardini di Minerva”: è da lassù che si vede l’infinito, e oltre. Iperbole? Forse solo forza dell’immaginazione, forza degli occhi del poeta che ci fa da cicerone. Non è una diminutio delle ebbrezze naturalistiche e paesaggistiche che in questa parte alta di Salerno si possono ammirare, è solo l’incipit di un viaggio reale, ma soprattutto di un viaggio che senti nascere dentro. E allora ben venga l’invito del poeta … 

Aperture

Ho salito fin lassù sull’erta
ai giardini della Minerva
fra gli afrori dell’erbe
che un silvatico dalla barba bianca
sistemò nell’orto romito dell’eremo.

Mi s’aprirono costiere
e l’immenso orizzonte di falce
protetto dalla tramontana
le agavi favoriva e le zagare
fra tetti mediterranei e solari.

Ferdinando Dello Iacono 

( da Di/visioni d’amore – Liriche dell’età levante, Palladio (SA) dic. 2012) 

Due strofe lapidarie di cinque versi ciascuna. Il poeta sale “fin lassù sull’erta/ai giardini della Minerva”, regno botanico millenario. “Rivede” l’antico maestro Matteo Silvatico (“un silvatico dalla barba bianca”) che nel 1300 volle su quell’erta istituire un Giardino Botanico primo esempio di orti botanici d’Europa. Da notare: oltre alla confacente assonanza erta/Minerva (I / II verso), l’iterazione al verso V della r e relativi gruppi sillabici (orto romito eremo) che conferiscono musicalmente un suono “chiuso” a suggerire l’immagine dell’uomo raccolto intensamente nel suo ruolo di scienziato, come rapito dalla natura e i suoi effluvi. Quasi atmosfera di un laico San Girolamo penitente. Ma ecco che nella seconda strofa i versi s’illuminano: è la luce della costiere o meglio delle “costiere” (quella amalfitana e quella che da Salerno si spinge fino a Paestum ), è“l’immenso orizzontedi falce”. Apoteosi del regno vegetale che incornicia questa parte di terra fortunata inglobando in essa in un vortice di vento ( “tramontana”) i segni dell’uomo (tetti mediterranei e solari) che divenuti un unicum con il tutto vanno a proiettarsi verso l’infinito.

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Ferdinando Dello Iacono, nato a Palma Campania nel 1944, ma salernitano d’adozione. Poeta, stimato da alcuni grandi poeti del ‘900 come Alfonso Gatto e Salvatore Quasimodo, è anche saggista e autore teatrale Tra le sue pubblicazioni, ricordiamo: Costiere, liriche dell’età calante (2012); Di/visioni d’amore, liriche dell’età levante (2012); Genialità & Scalogna. L’eterno di Napoli. Elegia per Sansevero (2013); Salvia. Un paese in esilio. Canto per Passannante (2013) e il recente saggio Al mio Leopardi detto Giacomo Taldegordo Francesco Salesio Saverio Pietro (2017)

Il fugace eterno attimo di gioia per un goal nei versi dell’indimenticabile Luigi Amendola

Quando due anni fa pubblicai il libro: Calcio d’autore da Umberto Saba a Gianni Brera: il football degli scrittori, Postfazione di Alessandro Bonan, Editrice La Scuola, 2016 (vedasi Vivimedia del 29 novembre 2016 servizio di Paola Valle ndr) dovetti, seppure a malincuore, operare una scrupolosa selezione. Avrei voluto inserire questa o quella poesia, ma la fedeltà tematica m’imponeva tagli ed esclusioni. Eppure vi era una poesia che avrei voluto assolutamente pubblicare, ma non mi fu possibile ritrovarla, confusa nel mare magnum di libri su libri, di fogli su fogli. E proprio in questi giorni dei Mondiali di Russia, orfani della nostra Nazionale, che inaspettatamente l’ho ritrovata: 

ed eccomi sul campetto
illuminato a giorno,
una serata illune, a driblare
portiere e numero sette
ch’è arduo vincere e gioire.
Ma intanto stasera godo
questo goal segnato
e questa brezza mite,
la stretta dei compagni
a portiere battuto,
il cielo di stelle e marzapane …

                          Luigi Amendola

Premio Badia, 15 ottobre 1994,  da sx LUIGI AMENDOLA, Antonio Donadio, Gianna Schelotto

Premio Badia, 15 ottobre 1994, da sinistra LUIGI AMENDOLA, Antonio Donadio, Gianna Schelotto

E’ una poesia “chiara”, di quel chiarore che si nutre di un’intima luce, quella propria dei poeti. Riflette l’attimo fugace ed eterno dopo una segnatura, un goal, in una partita giocata tra ragazzi “sul campetto /illuminato a giorno”, ma in una serata senza luna (“illune”)! Uno di quei campetti di periferia tipici degli anni sessanta e cosi cari a Pier Paolo Pasolini. Mi sarebbe piaciuto affiancarla a una poesia di Antonio Porta, (questa pubblicata), in cui regna un’identica atmosfera. Versi velati di un’inconsapevole malinconia (“arduo vincere e gioire”): un’altra crudele notte avrebbe avvolto i due poeti, scomparsi prematuramente.

Luigi Amendola, poeta e scrittore raffinato, morì nel 1997 a soli quarantasei anni. Era un amico, un caro amico. C’eravamo conosciuti a Roma presso il Centro Internazionale Eugenio Montale diretto da Maria Luisa Spaziani, frequentando alcuni dei più importanti poeti del primo novecento Mario Luzi, Giorgio Caproni, Luciano Erba, Andrea Zanzotto e anche un giovanissimo Valerio Magrelli. Fu per me un prezioso regalo essere suo amico. Ricordo di una sera in cui fui ospite a casa sua. Ci conoscevamo da poco eppure volle che mi fermassi a dormire, così spontaneamente. Dopo cena c’intrattenemmo a lungo a parlare, mi lesse anche alcune sue poesie: tra esse, questa, ritrovata in questi giorni. Scusami caro Luigi, per questa mia mancanza. A Luigi Amendola è legato anche il nostro Premio Badia. Nell’edizione del 1994, fu nella cinquina degli autori finalisti con il libro Carteggio del rancore (Mancosu Editore, 1993). Ricordo la sua gioia nel dialogare con gli alunni, la nostra passeggiata sotto i portici e la sua meraviglia: ” sembra di stare a Bologna”. Mi aveva promesso che sarebbe ritornato, semmai con un nuovo libro, …

Rileggiamo come Mario Luzi “commentò” il ritrovamento del corpo di Aldo Moro in quel funesto 9 maggio di quarant’anni fa

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A inizio maggio di quarant’anni fa, il corpo di Aldo Moro fu fatto ritrovare nel cofano di una Renault 4 parcheggiata in via Gaetani a Roma. Era il terribile epilogo del sequestro del presidente della Democrazia Cristiana iniziato, ad opera delle Brigate Rosse, 55 giorni prima con l’eccidio dei cinque poliziotti che ne formavano la scorta. All’indomani di quel funesto 9 maggio 1978, Mario Luzi compose quella che è, a parer mio, un’esemplare, illuminata testimonianza non solo di quanto orrenda possa essere la ferocia umana (“Acciambellato in quella sconcia stiva,/ crivellato da quei colpi”), ma anche di quello che era in quegli anni, il “gioco politico” di cui Moro fu figura preminente, insostituibile (“il capo di cinque governi, /punto fisso o stratega di almeno dieci altri,/ la mente fina, il maestro/ sottile /di metodica pazienza”) ridotto ora aquell’abbosciato/sacco di già oscura carne”. Nella seconda strofa, (rigorosamente, suddivisa dalla prima), Luzi sprona se stesso – e noi lettori- al compito di cercare la verità, solo apparentemente palese, su quanto è accaduto (“o ben dentro l’occhio/ di una qualche silenziosa lungimiranza- quale?”). Consapevoli che è cammino impervio e difficile ritrovare in noi l’oculata perspicacia (“silenziosa lungimiranza”) che porterebbe a capire il perché dell’omicidio Moro, della sua scorta e anche di quegli anni di morte e terrore. Ma un super ostacolo si frappone in questa impervia ricerca (“non lascia tempo di avvistarla/ la super inseguita gibigianna”.): quel riverbero di luce (la gibigianna”),che, metaforicamente, abbaglia e impedisce di accedere distintamente alla verità. 

Acciambellato in quella sconcia stiva,
crivellato da
quei colpi, è lui, il capo di cinque governi,
punto fisso o stratega di almeno dieci altri.
la mente fina, il maestro
sottile
di metodica pazienza, esempio
vero di essa
anche spiritualmente: lui –
come negarlo? – quell’abbosciato
sacco di già oscura carne

fuori da ogni possibile rispondenza
col suo passato
e con i suoi disegni, fuori atrocemente-
o ben dentro l’occhio
di una qualche silenziosa lungimiranza- quale?
non lascia tempo di avvistarla
la super inseguita gibigianna.
 

Mario Luzi

(da  Per il battesimo dei nostri frammenti, Garzanti, marzo 1985)

“POESIA” mensile fondato e diretto da Nicola Crocetti compie 30 anni. In edicola un numero speciale: “La nostra storia in versi”

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Poesia”, mensile internazionale di cultura poetica, Fondazione Poesia Onlus, compie trent’anni. Trentennale festeggiato con un numero speciale: “30 anni. La nostra storia in versi”. Scrive il poeta e traduttore Nicola Crocetti, ideatore ed anima di quest’ importante mensile, voce autorevole nel panorama poetico internazionale: ”Trent’anni fa, quando nacque “Poesia”, nessuno avrebbe scommesso, non diciamo sulla sua durata, ma sulla sua sopravvivenza per un periodo superiore a qualche mese o a pochi anni. Di anni ne sono passati trenta, e siamo qui”. Ed io fui tra i primissimi lettori. Finalmente si poteva leggere della Vera Poesia e non solo italiana. Ricordo bene l’acquisto della prima copia. Ero a Bergamo nel gennaio del 1988. Mi ero recato, quella mattina, in Città Alta presso la Biblioteca Angelo May per consultare un antico volume sulle Rime di Bernardo Tasso. All’uscita, all’edicola dei giornali, la mia attenzione fu colpita da questa nuova testata. Incominciai a leggerla subito, quasi avidamente. Ricordo, ero in funicolare che da Bergamo Alta porta a Bergamo Bassa. Ne divenni un fedele abbonato. Giovane poeta potevo “andare a Lezione di Poesia” dai Grandi: Pavese, Luzi, Fortini.,… fino ad essere, in seguito, “ospitato” su quelle stesse pagine ( l’ ultima volta fu a gennaio dello scorso anno: il mio Calcio d’autore recensito dal poeta e critico Plinio Perilli). Questo numero speciale che consta di più di 200 pagine, si apre con gli auguri-ricordi di alcuni poeti: “Con la rivista “Poesia” è stato amore a prima vista. Ricordo benissimo il primo numero, nel gennaio del 1988, le foto di Rebora e Baldini, …! (Milo De Angelis); “ In un caffè del centro di Milano. autunno del 1987- Nicola Crocetti mi comunicava la sua “pazza idea”: fondare una rivista di poesia e chiamarla col nome più naturale “Poesia”.(Silvio Ramat); “Una rivista come “Poesia”, per restare nella metafora, è una sorta di faro, che da un ideale promontorio di terraferma illumina queste isole e ne annulla le diversità…” (Silvio Raffo). Segue un compendio lungo trenta anni: testi di poeti italiani e stranieri, nomi già noti a fianco d’altri che, confesso, furono per me vere scoperte. Poeti non solo di lingue neolatine, ma d’idiomi di tutto il mondo. Una rivista che orgogliosamente e legittimamente, fa dire ancora a Crocetti: “ Da trent’anni siamo la rivista di poesia più diffusa d’Europa e una delle prime al mondo. Alcuni numeri hanno raggiunto la tiratura di 50 mila copie, per poi assestarsi sulle 20.000 copie….” per concludere: “La poesia non è per chi non la merita”.

Tra le moltissime poesie, ho scelto Il poeta di Ghiannis Ritsos, notissimo poeta di lingua greca, nella traduzione di Nicola Crocetti.

Il poeta

Per quanto si bagni la mano nell’oscuro,
la mano non si annerisce mai. La sua mano
è impermeabile alla notte. Quando se ne andrà
(perché un giorno tutti ce ne andiamo), credo che resterà
un sorriso dolcissimo in questo mondo
che dirà incessantemente “sì” e ancora “sì’”
a tutte le secolari speranze vanificate.

Karlòvasi, 17,VII.87

Ghiannis Ritsos

Traduzione di Nicola Crocetti

(da Poesia, mensile internazionale di cultura poetica, Anno XXXI gennaio 2018 N.333 Fondazione Poesia Onlus, Milano, pagine 211, Euro 10,00)

Che questosorriso dolcissimo” resti e continui ancora a illuminare -anche dalle pagine di Poesia – per un “ incessantemente “sì” e ancora “sì’”.

Ghiannis Ritsos (Monemvasia,  1909 – Atene, 1990 ). E uno dei più importanti poeti greci del secolo scorso. Tra le sue opere maggiori, ricordiamo: Trattori (1934), Lo straniero (1936), Veglia (1941–1953). E tra le traduzioni in italiano di Nicola Crocetti, le recenti: Delfi: la sonata al chiaro di luna, introd. di Moni Ovadia, Crocetti 2012; Quarta dimensione, Crocetti, 2013.

Gli “angeli di terra “ di Alessandro Fo

Angelo a sorpresa (incrociandolo)

Sotto la poggia, al buio, figura

delicata e leggera,

stivaletti da sera in andatura

da fuga verso casa. Quasi accanto,

invernale, si svela la segreta

fisionomia ma sì, forse era l’angelo

dal vestito di seta:

flash d’incanto, un istante

breve, bruciante.

 

Angelo pesciolino

Le volò il palloncino

fatto a coniglio blu.

Prendilo , mamma, presto

che lassù

troverà tuoni fulmini e tempeste

avrà freddo e paura

senza di me, e non ci vedremo più.

Alessandro Fo

(da Mancanze Einaudi, 2014)

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In “Mancanze” (Premio Viareggio 2014) Alessandro Fo, riserva un’ intera sezione agli angeli: “Figure d’angeli” con un esplicativo esergo dalla “Vita nova” di Dante: “ Onde partiti costoro, ritornaimi a la mia opera, cioè del disegnare figure d’angeli”. Libro di versi che apre uno spiraglio ampiamente articolato nel panorama poetico di Fo. In quarta di copertina si legge: “ La poesia di questa raccolta è estremamente contigua, per forma e ispirazione, ai meccanismi della preghiera”. Ma sia avvisato il lettore: qui non ci troviamo dinanzi a una “poesia religiosa” come potrebbe essere ad esempio in Clemente Rebora: poesia come dono della vita nobilitata dalla grazia che ha come centro il mistero di Cristo fattosi uomo per la nostra redenzione. Fo, invece, attraverso un costante anelito spirituale, fortemente mariano, (bella la sezione “Libro d’oro” dedicata, appunto, alla Madonna) scruta la vita, le vicende della vita, anche le più quotidiane (per taluni, scontate) per scoprire in esse il segno del divino attraverso “quella sostanza angelica che abita nelle contingenze terrene e umane meno canoniche”. E di questa “sostanza” l’angelo, la figura angelica, non può non essere mezzo e messaggero del respiro dell’Oltre. L’angelo, come “ricovero per l’uomo” nella trasfigurazione poetica di Mario Luzi. Il poeta, infatti, affermava che la mente umana si crea dei ricoveri ed uno di questi non può non essere l’angelo. Ed è in queste “figure d’angeli” che il lettore s’imbatte; ma sono, oserei dire, “angeli di terra”: con lo sguardo al divino ma al tempo stesso fisso negli occhi dell’uomo. Angeli che richiamano (o forse lo sono) figure di persone care al poeta che hanno attraversato con lui tratti di cammino terreno. O angeli a loro insaputa, come figure femminili incrociate per caso, piene di forza materiale eppure angeliche. Esemplari queste due poesie di due angeli a loro insaputa. “Angelo a sorpresa”, una normale figura femminile come se ne incontrano tante per via, in cui il poeta ritrova e “svela la segreta fisionomia”: è l’angelo “dal vestito di seta” che fulmineo ti passa accanto in un lungo bruciante istante di vita che suggerisce l’Altrove. E’ l’angelo pesciolino, la bimba ingannata dal vento che a lei rapisce “il palloncino/fatto a coniglio blu”. E l’accorata invocazione alla madre (chissà, forse con la M maiuscola) di non lasciarlo fuggire, di riprenderlo, non per sé, per il suo divertimento ma per sottrarre il palloncino ad una fine dolorosa: “lassù/troverà tuoni fulmini e tempeste”, ma soprattutto sarà solo, “avrà freddo e paura” senza il suo piccolo angelo di terra. 

Alessandro Fo (figlio di un fratello di Dario) nato a legnano nel 1955, è docente di Letteratura latina all’Università di Siena. Poeta, traduttore, saggista, autore teatrale. Tra le sue raccolte di versi: Otto febbraio (Scheiwiller 1995); Corpuscolo (Einaudi 2004); Vecchi filmati ( Manni 2006), Mancanze (Einaudi 2014). Molti i premi, tra cui : Montale (1988), Dessi (1995) Achille Marazza (2004) Gregor von Rezzori 2013 – per una superlativa traduzione dell’Eneide- Viareggio (2014)