PoesiadelNovecento – I Contemporanei
Poesie di poeti noti e meno noti del panorama letterario italiano … di Antonio Donadio
Nel segno della nominazione, l’ultimo libro di Paolo Romano
Nel segno della nominazione l’originalissimo testo poetico di Paolo Romano “Mille quadri non dipinti ”. Dice l’autore: “Mille quadri non dipinti” è il parziale allestimento d’una pinacoteca dell’immaginario, liberazione d’archetipi, museo degli occhi che hanno veduto, hanno bevuto tutto il visibile e conservano le tele, una miriade di tele”. Pinacoteca nominale, pinacoteca della parola, del suono, dell’essenza in sé. Interessante la prefazione al libro di Erri De Luca, ma non del tutto condivisibile quando afferma: “Al catalogo dei titoli di Paolo Romano abbino gli autori ai quali commissionerei i lavori, alcuni dell’immenso catalogo. Affido al signor Claude Monet facitura del quadro “Neve alla miniera” in forza della sua intelligenza della natura dell’acqua. Affido “Il viaggio breve di un proiettile” al pittore Michelangelo per la sua intimità con il giovane Davide, primo maestro di basilica, oltre che re guerriero d’Israele”. Ritengo che se questi titoli “dessero vita” a una reale opera pittorica, il “lavoro” di Romano perderebbe forza, vigore, connotazione, identità. In questo libro al centro è la Nominazione, ovvero la Parola che è, s’impone e resta come Res a se stante, non denominazione di qualcos’altro da sé. E’ questa la forza di un libro non certo facile. Infatti molto arduo è l’esercizio del Nominare. Il grande Mario Luzi diceva: “Difficile il rapporto tra le cose e le parole. Più che il valore magico della parola poetica, la magia è nella parola. Quando la parola effettivamente trova e ritrova questa immedesimazione con la cosa, questa identificazione e non è più una cifra, o un segno convenzionale, ma è finalmente la parola, che significa la Cosa che veramente significa e che veramente la fa nascere, la fa nascere dal pensiero”. Ecco che allora questi titoli danno luogo al divenire nato da immagini sognate, sbiadite o ferme, da momenti lirici fortemente vissuti o solo desiderati per un insieme di frammenti poetici che, vissuti autonomamente, s’impongono di vivere incessantemente. Indagare le cose, i fatti naturali, la razionalità o meno dell’essere umano, i processi materici, la quotidianità del vivere, i tempi e i modi del puro sognare, attraverso la pura nominazione fattosi testo poetico. Questa “narrazione testuale” diviene un atipico mosaico attraverso una partitura caratterizzata da ritmi cadenzati da brevi o lunghi vuoti, e silenzi, lunghi silenzi, laddove il non-verso sembra tacere eppur detta sensazioni tutte da scoprire per un attento lettore.
L’isola della danza
La stanza vuota
A porte chiuse
L’osservatore
Ultimamente
Inventariare
Cartolina del Novecento
(da “Mille quadri non dipinti” pag.119)
Paolo Romano, giornalista professionista, già in forza a Rai-Giubileo, è redattore di TDS Salerno. Collabora con il quotidiano La Città, gruppo L’espresso. Ha realizzato documentari in India, Tunisia, Germania, Israele, Egitto, Giordania. Ha vinto il premio Giornalistico “Città di Salerno” (2006) e il Premio “ Media e Territorio”(2010). Tra le sue pubblicazioni: “Menti perdute” (Ripostes 1995), “Circo-stanze” (Ripostes 2000), “Il Dio della valigia” (Il grappolo 2004). Una silloge di sue poesie è stata tradotta in inglese e pubblicata negli Stati Uniti su “Gradiva-Internazional Journal of Italian Poetry”.
E’ in libreria l’ultimo libro di Milo De Angelis: Milo De Angelis. Tutte le poesie 1969-2015
E’ stato presentato il 24 ottobre scorso presso la splendida Sala del Grechetto di Palazzo Sormani sede della Biblioteca Centrale di Milano, l’ultimo libro di Milo De Angelis, autorevole voce della Poesia del Secondo Novecento (Milo De Angelis Tutte le poesie 1969-2015. Lo Specchio Mondadori, 2017, pagine 442 Euro 22,00). Il libro racchiude quasi quarant’anni di presenza costante nel panorama letterario italiano e non solo. Dal primissimo “Somiglianze” (1976) di cui Stefano Verdino, che assieme a Giancarlo Pontiggia e Anglo Lumelli, ha fatto da relatore durante la serata milanese, così afferma: “ … Esordio di un autore giovanissimo, perfettamente padrone, già allora, di una lingua poetica esatta e tagliente, capace di esprimere senza enfasi alcuna i vortici di una condizione esistenziale inquieta.” Fino al suo ultimo “Incontri e agguati” (2015) che contiene anche una breve lirica da me antologizzata lo scorso anno nel mio Calcio d’autore qui di seguito:
Bella come un grido ti ritrovo
nel tintinnio delle colline
quando lottavi sul prato con i maschi
in una giovinezza di soli istanti
in un sussurro di finte e schivate
ti guardavano i rami del tiglio
e si tendono le braccia vittoriose
a tutti noi che restiamo.
Questa poesia faceva quasi da “seguito ” a una’altra poesia scritta da Milo appena sedicenne quando frequentava l’Istituto Gonzaga di Milano. Poesia che il poeta, cortesemente, mise a mia disposizione per il libro di cui sopra. Si raccontava dell’irruzione del sesso femminile in una partita di calcio. Una ragazza nella squadra avversaria. Un’ irruzione che andava molto di là della sorpresa e che impauriva il giovanissimo futuro poeta: “ Era il vuoto/ che irrompeva nel cortile gesuita, era la vita! “. Ricordi e turbamenti che non svaniranno e che ritorneranno dopo molti anni, nei versi prima riportati. Ma in “Incontri e agguati” è doveroso sottolineare le poesie di Alta sorveglianza. Il poeta ”dà voce” a chi non ha voce, ai detenuti del carcere di Opera dove da molti anni De Angelis insegna. Poesie che invito i lettori a leggere con estremo pudore: in punta di piedi si entra con il poeta in “un mondo” a noi -che siamo fuori- del tutto sconosciuto se non attraverso le scontate cronache quotidiane. In esergo una frase da un tema di un detenuto “ Professore, forse un giorno riuscirò a parlarvi della mia giovane sposa e del mio delitto…forse ci riuscirò…forse a fine anno…nell’ultima pagina di un tema”. Tra queste poesie, una:
Qui non è prevista
la stagione dei dodici raccolti
qui ogni mese può essere infinito
o mancare per sempre
dipende da un giro di sigarette
da una compravendita o da un agente
che non ha ricevuto la giusta adorazione
e compila un rapporto feroce
dove ogni ora d’aria è avvelenata
e ogni parola trova un movente.
Ecco il dramma: l’eterno tema dell’esistere che, fra quelle mura, da trascendente si fa cosa terribilmente umana, fragile, legata a un semplice, ordinario “giro di sigarette”o a un capriccio di un agente di sorveglianza “ che non ha ricevuto la giusta adorazione”. Allora il tempo si fa “infinito” o addirittura “può mancare per sempre”. L’ultima sezione del libro è riservata alle poesie giovanili, (1969/1973) per certi versi, la più sorprendente perché ci regala un De Angelis inedito benché in essa già si ravvisi la personalissima cifra che lo contraddistinguerà in seguito. Con estrema sincerità De Angelis così scrive: “ Ho rispettato per filo e per segno il testo originale senza cambiare una virgola – in certi casi con qualche sforzo- ed ecco qui il risultato del mio lavoro, ossia ventisette poesie indubbiamente acerbe ma forse utili per comprendere meglio quello che ho scritto.” Il libro si chiude non solo con un’illuminante postazione di Stefano Verdino, ma ancor più con uno scritto di poetica dello stesso Milo: “ Cosa è la poesia”. Non una poesia, ma la poesia, tiene a sottolineare il poeta. Solo poche pagine, ma che riflettono bene il dramma e la gioia, lo sgomento e il rapimento magico e misterioso che prende ogni poeta- ogni vero poeta- che sa che nello scrivere versi non è egli l’agente, ma solo lo scriba come ebbe a dire il grande Luzi. Di chi è “quella voce” ? Da dove proviene? Il poeta sa che è solo un tramite. Consapevole che: “Non scrivi ciò che sai ma cominci a saperlo scrivendo.”. Un libro assolutamente da tenere nella propria libreria.
Milo De Angelis (Milano 1951), docente da anni presso il carcere di Opera di Milano, è poeta, critico letterario, traduttore. Esordisce giovanissimo con “Somiglianze” (1976) cui faranno seguito, tra gli altri, “Millimetri” (1983), “Biografia Sommaria” (1999) “Tema dell’addio”, dedicato all’immatura scomparsa della moglie, la poetessa Giovanna Sicari (Premio Viareggio 2005), “ Quell’andarsene nel buio dei cortili” (2010), “Incontri e agguati” (2015). Tra le opere di saggistica da segnalare “Poesia e destino” edito nel 1982.
Un anno fa moriva Valentino Zeichen. Poeta “marziale” e tifoso laziale. Fazi Editore ne ricorda l’anniversario pubblicando le poesie più belle
Un anno fa moriva Valentino Zeichen. Poeta che si tenne sempre ben lontano da facili riflettori che spesso abbagliano anche scrittori e uomini di cultura, preferendo una scelta di vita “tutta sua” esplicitata così bene da queste parole di Valerio Magrelli: “sdegnoso rifiuto di un qualsivoglia lavoro con violenti attacchi alla civiltà dei consumi”. Non ho mai conosciuto Zeichen se non attraverso le sue poesie. Il poeta, originario di Fiume, in seguito dell’esodo del popolo istriano, aveva seguito, orfano della madre, il padre a Roma, città in cui vivrà per tutto il corso della sua vita in un’abitazione assai umile sulla via Flaminia, la cosiddetta “casa/baracca” che il suo amico e poeta Dario Bellezza chiamava “la topaia”. Avrei avuto anche diverse occasioni per incontrarlo personalmente, ma una strana ritrosia che non saprei spiegare nemmeno a me stesso, me l’ha sempre impedito: forse mi sembrava che era più giusto “addentrarsi” nelle sue poesie “lasciando in pace” l’uomo alla sua intimità. La stessa cosa che ho sempre pensato di Sandro Penna: poeta singolare e voce importante del nostro Novecento, la cui vita privata, se non “riversata” nei suoi versi, era giusto che restasse privata. Sapevo che Zeichen era un grande appassionato di calcio e tifosissimo della Lazio e così pianificando la struttura del mio libro Calcio d’autore, decisi di inserirvi anche una sua poesia: “ A Bruno Giordano”. Giordano, centravanti, alcuni anni fa, della Lazio e non solo, nei versi di Zeichen, veste gli abiti di un antico grande gladiatore. La folla lo acclama ancor più dell’imperatore. Il poeta con leggiadra ironia, nel segno di Marziale, come ebbe a rilevare Moravia, sferza la tanto detestata società odierna infarcita di falsi miti, di nuove laiche divinità.
A Bruno Giordano
Un remoto LAZIO-JUVENTUS; tre a zero
esplode l’anonimo urlo di trionfo,
sì; ma chi ha recapitato al presente
il nome di quel gladiatore: Bruno Giordano
che si distinse durante i giochi
per l’incoronazione dei titoli di Augusto;
con quale punteggio sconfisse le fiere zebrate
se l’ovazione riservatagli dalla folla
superò i cento decibel, sopravanzando
quella resa di consueto all’imperatore?
(da Antonio Donadio Calcio d’autore. Da Umberto Saba a Gianni Brera: il football degli scrittori. Editrice La Scuola, 2016)
Ma a ben guardare Zeichen fu anche una sorta di poeta che, in alcuni casi, definirei “nascostamente lirico”. Un esempio può ritrovarsi nei versi che seguono caratterizzati da accenti lirici: versi in cui, seppur connotati da una poetica fortemente argomentativa, non secondario emerge un certo “respiro lirico”: “Come dirti ancora amore mio,/ mia, mio, adesso/ che gli aggettivi possessivi/ sono istruiti di dubbi, svogliati/ e disaffezionati alla proprietà/ abbandonano la guardia e disertano/ lasciando sguarniti i beni privati,/ concedendosi solo al plurale.” Splendido l’inizio: “Come dirti ancora amore mio,/ mia, mio, adesso” laddove il secondo verso rafforza il possesso che è proprio dell’Amore e degli amanti nell’eterno sogno dell’ hic et nunc. E’ un lirismo velato che ci mostra il poeta Zeichen che ancora “marzialmente” ammonisce, ma dove, con sofferta tristezza, sottolinea che persino in amore vengono “sguarniti i beni privati” permettendo al singolo uomo – a ognuno di noi – l’amara possibilità di concedersi “solo al plurale”.
Valentino Zeichen (Fiume 1938 -Roma 2016). Tra i libri di poesie ma anche di romanzi, citiamo: Area di rigore (1974); Ricreazione (1979); Museo interiore (1987); Neomarziale (2006); Passeggiate romane (2004); Casa di rieducazione (2011; ) La sumera (2015). Tutte le sue poesie, nel 2004, sono state pubblicate negli Oscar Mondadori con prefazione di Giulio Ferroni.
Lo scorso mese di luglio in occasione del primo anniversario della sua scomparsa, è stato pubblicato: Valentino Zeichen Le poesie più belle – Fazi Editore. Il libro si apre con un inedito del 2010 per il matrimonio tra Elido Fazi e Alice Di Stefano. Altri due inediti nell’ultima sezione.
Trieste: la città di Saba ma anche di Sergio Penco
Trieste e Saba sono legati indissolubilmente. Non si può pensare al grande poeta senza pensare alla splendida città. Eppure c’è anche un altro poeta, triestino come Saba, che merita non solo un ricordo, ma anche un’attenzione particolare, non ricevuta, forse, adeguatamente in vita: Sergio Penco. Di lui ho scelto la poesia “L’osteria” che, secondo me, esemplifica molto dell’uomo e del poeta.
L’osteria
Un gabbiano che piani per caso dentro un’osteria
sospinto dal vento e dai cattivi pensieri
non può fare altro che bere del vino rosso
e unirsi alla bella compagnia
in sarabanda di bestemmie e di ammiccamenti e giochi d’azzardo,
girando invano lo sguardo
dagli angoli più celati a sotto i tavolini,
dove ristagnano macchie d’unto e di muffa
e polvere e facchini.
Eppure si sa che fuori dall’uscio, oltre le case grigie,
oltre la nebbia, oltre l’odore di ruggine,
aspro brulica il mare,
ma non è il caso di sbattere forte le ali
né di gemere come la pioggia che si uccide sui tetti,
nel riluttante spegnersi del giorno
è più opportuno fingersi uguali
al gatto, e fare le fusa, e sonnecchiare.
Dalle panche dell’osteria non si fa ritorno
ma il fumo dell’osteria raggiunge la luna.
(da “Ballata dal Mary Celeste” Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione, 1998)
L’osteria, dove un gabbiano è planato per puro caso, diventa il luogo dell’esistere, dello stare. Lo sventurato uccello si ritrova, così, in un posto a lui non naturale sospinto da una forza fuori di sé e da una forza dentro di sé, entrambe incontrollabili (“sospinto dal vento e dai cattivi pensieri”). Palese riferimento a L’albatros di Baudelaire catturato dai marinai e posato sulla tolda, “que ces rois de l’azur”. L’osteria è un’osteria, e come tale, luogo destinato all’illusorio star bene nel bere vino in godibile e bella compagnia, ma tutt’intorno “girando invano lo sguardo” (il movimento dell’atto del guardare è reso da Penco attraverso un gioco iterativo in rima al mezzo del gruppo consonantico in a e o: girando invano lo sguardo), la realtà è ben altra cosa, celata agli occhi degli avventori: “macchie d’unto e di muffa / e polvere”. Ecco il luogo in cui è costretto a vivere un gabbiano, nato per il cielo e per il mare. E’ fuori il luogo dove poter essere realmente se stesso; fuori da quell’uscio “oltre le case grigie,/oltre la nebbia, oltre l’odore di ruggine”, fuori è il regno della piena libertà, del volo libero. Ad aspettare i suoi voli, “aspro brulica il mare”. E’ questo verso, il cuore dell’intera poesia. Ma sarebbe retorica decadente inneggiare a un luogo fatto di serenità e quiete da contrapporsi all’osteria. Infatti ad attendere i voli del gabbiano, ecco un mare brulicante di vita, di mille esseri viventi e pensanti, ma nello stesso tempo un mare per nulla rassicurante, impetuoso, duro, severo, (“aspro brulica”), ma anche fiero. Metafora della vita non rassicurante ma viva e fatta di uomini che non distraggono menti e pensieri nell’illusorio consolatorio calice di vino rosso d’osteria. Eppure il gabbiano è lì, chiuso tra quattro pareti, le sue ali son chiuse; nulla varrebbe sbatterle frementi per un impossibile volo. Sarebbe solo un suicidarsi proprio come fa la pioggia che nata dal cielo e per il cielo, gemendo, sceglie di lasciarsi morire sui tetti: “come la pioggia che si uccide sui tetti”. Quale possibilità, quindi per il gabbiano/uomo? Lasciarsi vivere, accettare a male in cuore un ritmo di vita scelto da altri, uniformarsi alla loro vita, fingersi uguali tacendo l’urlo della diversità, vivere da gatto d’osteria: “fare le fusa, e sonnecchiare”. E’ la scelta per la sopravvivenza! Triste accettazione di una condizione di vita esistenziale. Ma la ballata non finisce qua: si chiude con un distico dal respiro aforistico: “Dalle panche dell’osteria non si fa ritorno/ ma il fumo dell’osteria raggiunge la luna”. Un velato incoraggiamento del poeta: se è pur vero che da “una vita d’osteria” non si esce immuni, “non si fa ritorno”, sappia l’uomo che non è solo pensiero, non solo realtà temporale limitata, ma anche sogno, fantasia, speranza: regni certamente inesistenti e impalpabili proprio come “fumo” che si alza dal nostro vivere di osteria, ma libero proprio come un volo di gabbiano che può raggiungere il cielo e volare molto alto, fino alla luna.
Sergio Penco (Trieste 1943- 2009). Poeta raffinato e assai riservato amò essere lontano dai “salotti letterari” (o pseudo tali). Tra le sue raccolte di versi ricordiamo “Guadalajara” , Rebellato Editore , 1978; “Ballata dal Mary Celeste” Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione, 1998; “Ballate di Cane Nero”, Sciascia Editore,2002; “Con una rosa dei Venti tra i denti” ,Hammerle Editori, 2009. Tradotto in inglese, francese e sloveno, collaborò con testate giornalistiche locali firmando anche diverse trasmissioni radiofoniche per la sede regionale Rai. Nel 2009 è uscito postumo, in edizione limitata di 250 copie, il libro “Poesie inedite”, Franco Rosso Editoree lo scorso anno”Poesie”, Libreria Editrice San Marco.
Per una nuova stagionatura degli uomini nei versi di Giancarlo Zizola
Alla ricerca di un filo che annodi l’uomo, tormentato, dubbioso, impaurito, svogliatamente spavaldo, col taciuto desiderio di un mondo mitico per una mitologia dell’uomo lungamente e ininterrottamente sognato, giammai fantastico solo terribilmente umano, ecco la sognata renovatio, in quest’ultimo libro di Carlo G. Zizola (La neve e il tempo Casa Editrice el squero, Venezia, 2016). Una nuova Alba: “ L’alba apre squarci azzurri/per una nuova stagionatura degli uomini”. Il vivere presente non è che “dimora provvisoria” laddove “ i lampioni frugano/ come volessero portare in superficie/ un groviglio di cose incerte” (Dal vento che accarezza le colline). La scrittura di Zizola è scrittura matura, non regala nulla allo scontato, all’effetto, al coup de théâtre. Esigenza che viene dal profondo, dall’inconoscibile, dal misterioso magma che è proprio del ποιείν.Tutto si fa verso, la natura con le sue creature inanimate e animate e tra di esse l’uomo, mai artifex, mai giudice del suo destino, ma solo eterno viandante segnato dal perenne interrogarsi del suo cammino, del nostro cammino di uomini. Ma non è solo: “ e il cuore s’abbandona/a una strana selva/di gnomi e fate incorniciata/dal cristallo definitivo della luna” (Un bosco magico). Versi caratterizzati, a volte, persino da una vigoria gnomica. Il ritmo, nella mal celata veste prosastica, accompagna i versi dondolando immagini su immagini dove il lettore (se non è distratto) si lascia andare.
L’alba
Tra nuvole aureola di Dio
l’alba apre squarci azzurri
per una nuova stagionatura degli uomini,
ingravida il tempo l’attesa, illumina
bivacchi notturni e un silenzio eccitato
dal bagliore dei primi eventi.
Inevitabilmente, il giorno rotola
verso domande imbarazzanti,
strade bagnate e cortili sommersi
dai mozziconi delle nostre abitudini
motori arrugginiti e pensieri senza logica;
qualcuno, ancora carico d’ombra
chiede al primo sconosciuto che incontra,
come se avesse la risposta in faccia,
se capire ciò che sta nel cuore
sia cosa semplice.
Carlo G. Zizola (Giancarlo) è nato ad Asolo (Treviso) dove vive. Laureato in sociologia, da molti anni si occupa d’importanti eventi culturali. Tra le sue pubblicazioni in versi più recenti: “Per le strade” Edizioni del Leone, 2004; “Vortici” Edizioni del Leone, 2007 e il romanzo “Quando l’amore odia” Campanotto Editore, 2016. E’ in via di pubblicazione un prossimo libro di poesie.