PoesiadelNovecento – I Contemporanei
Poesie di poeti noti e meno noti del panorama letterario italiano … di Antonio Donadio
Le cose del mondo. Ultimo libro di versi di Paolo Ruffilli
Paolo Ruffilli, poeta molto noto nonché autorevole figura del panorama letterario italiano e non solo, è in libreria con un nuovo libro di liriche (Le cose del mondo, Mondadori 2020, pagg 198 Euro 20,00). Non posso certo tacere che Paolo ed io siamo legati da profonda stima e sincera amicizia, consolidatasi circa trent’anni quando con i rispettivi libri (Camera oscura e Per le terre di Grecia) fummo ospiti presso il Circolo della Stampa di Salerno, relatore il cattedratico prof Alberto Granese.
Da “Le cose del mondo” ho scelto:
L’ evidente
Tutto ciò che è troppo esposto
è poco interessante: l’evidente
che ti abbaglia e ti impedisce
di vedere la parte più importante.
Il resto, sia pur grande,
conta poco o niente. Perché
sta nel segreto e nel nascosto,
ma a vista, la molla della vita;
la ricerca e la scoperta, la conquista.
Paolo Ruffilli
(da Le cose del mondo, Mondadori, 2020)
Oggi tutto sembra demandato al caso, all’opportunità che si offre come tale e perciò da cogliersi senza tentennamenti, senza interrogarsi oltre sulla vera natura delle cose, “illuminata” dall’evidenza. Più che l’antico carpe diem sembrerebbe imporsi un’altra massima: cogli ciò che appare, che sia vera o meno, non importa. “E’ evidente che sia così”. Questa frase data per assiomatica dirige le nostre scelte, il nostro modo di vivere. Si carica di oggettività ciò che non lo è fino a soggettivare “le cose del mondo” a scapito della confusione, dell’errore. Sembra che spinti e presi nell’incessante e costante fare, dall’azione, sempre più presta e risoluta, il vero oggettivo scompaia definitivamente. E cosi, nei rapporti umani, sociali, e perfino affettivi, ci si muove con un’erronea consapevolezza data dall’evidenza che porta a fare scelte inidonee se non errate. E’ facile fermarsi “all’evidenza”. E’ molto difficile ricercare qualcosa che evidente non appare, ma che risulta essere “la molla della vita”. Chissà, forse, è la montaliana formula che mondi possa aprirti! Per Ruffilli l’evidente “abbaglia”, t’impedisce di “vedere la parte più importante” e così anche qualcosa che “sia pur grande, / conta poco o niente”. Da qui, l’ammonimento del poeta: non è mai evidente, non è mai a vista “la molla della vita”. Ecco, però, indicate le azioni che dettano il cammino verso “la conquista” finale: “la ricerca e la scoperta”. Una lezione, questa, non solo per i giovani (Ruffilli è anche un ex docente), ma soprattutto per tutti quelli che credono che sia tempo perso ricercare e scoprire quando è cosi conveniente consegnarsi al facile, allo scontato, all’evidente. Un registro poetico quello di Ruffilli, che solo a lettori distratti, potrebbe apparire “prosastico”, laddove è di puro di lirismo dal respiro ampio e vigoroso dove il sapiente uso dell’enjambement detta il ritmo cesellato dalle varie assonanze disseminate e, al tempo, quasi nascoste, tra cui fa da perno centrale, in chiusura, l’assonanza Vita /conquista. Ecco due parole indissolubilmente legate. Chiave di lettura, non solo del testo in oggetto, ma soprattutto indicazione di giusta scelta di vita.
Paolo Ruffilli (Rieti, 1949) è poeta, scrittore, saggista, traduttore. Vincitore dei più importanti premi nazionali ed internazionali, i suoi libri sono stati tradotti in molte lingue. Tra i suoi testi di poesia citiamo: La Quercia delle gazze (Forum, 1972); Piccola colazione (Garzanti, 1987); Camera oscura (Garzanti, 1992); Le stanze del cielo (Marsilio, 2008); Affari di cuore (Einaudi, 2011); Variazioni sul tema (Aragno, 2014). Tra romanzi e saggi: Vita di Ippolito Nievo (Camunia, 1991); Vita, amori e meraviglie del signor Carlo Goldoni (Camunia, 1993); Preparativi per la partenza (Marsilio, 2003); L’isola e il sogno (Fazi, 2011). Ha tradotto opere di Gibran, Tagore, Shakespeare. Milton, Mandel’štam, Kavafis.
Cinquant’anni fa moriva Giuseppe Ungaretti, il padre della Poesia Pura
(Con quest’omaggio a Giuseppe Ungaretti riprendono gli approfondimenti di cultura poetica “PoesiadelNovecento-IContempranei” a cura del poeta Antonio Donadio. N.d.R.)
Il Porto sepolto, scritto nell’inferno della prima guerra mondiale quando il poeta era al fronte sul Carso e pubblicato a Udine nel 1916 in soli ottanta esemplari, è senza dubbio il capolavoro di Ungaretti. Elemento chiave è la parola, la purezza della Parola così come sgorga nell’animo del poeta.
Novità per la poesia italiana d’inizio Novecento: la parola come rappresentazione di se stessa e della sua misteriosa esplosione evocativa di un “qualcosa” che l’uomo sente “dentro” ma che difficilmente riesce a decifrare.
E’ questo il compito della “nuova poesia”, di questa “poesia pura”, cogliere di dentro quel qualcosa nella sua essenza primitiva per poter decifrare la misteriosa realtà dell’esistenza umana, esistenza gravata da continue sofferenze e della presenza costante del dolore.
Compito del poeta è di far venire fuori questa “esplosione” così come avviene, senza infingimenti logici, retorici o peggio di maniera.
La “parola” per Ungaretti deve “nascere nella tensione espressiva che la colmi della pienezza del suo significato”. Insomma la Parola nuda così’ come nasce nel profondo dell’animo che diventa canto poetico. Ma per fare questo il poeta deve liberarsi di tutto ciò che gli impedirebbe di portare a termine questa ”operazione”, deve cioè liberarsi dei codificati canoni di “fare poesia” in modo tradizionale, e allora: via la metrica classica, la sintassi rigida e schematica, la punteggiatura tradizionale, la ripartizione dei versi in strofe, per un uso maggiore dell’analogia, della sinestesia, e l’introduzione dello spazio bianco tra verso e verso.
Verso che diventa anche di una sola parola. Esempio la famosissima lirica (nonché splendida sinestesia): M’illumino/d’immenso. Poesia pura quindi che si serve della parola come valore magico-evocativo di qualcosa di misterioso attraverso un linguaggio, spesso, altrettanto misterioso. Poesia che per quest’aspetto venne definita, a parer mio, molto superficialmente, poesia ermetica.
L’ermetismo, in verità, ufficialmente, nascerà molti anni dopo, solo nel 1936. Sarà Francesco Flora a battezzare questa nuova poesia come Poesia Ermetica. Termine derivato dal nome del dio pagano Ermete, divinità dedita ai culti esoterici, misteriosi.
La prima opera che può definirsi a pieno titolo “ermetica” sarà Oboe Sommerso (1932) di Salvatore Quasimodo in cui i canoni poetici assunti dal nascente ermetismo diventano vere e proprie regole da applicare.
La madre
E il cuore quando d’un ultimo battito
Avrà fatto cadere il muro d’ombra
Per condurmi, Madre, sino al Signore,
Come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all’Eterno,
Come già ti vedeva
Quando eri ancora in vita.
Alzerai tremante le vecchie braccia,
Come quando spirasti
Dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m’avrà perdonato,
Ti verrà desiderio di guardarmi.
Ricorderai d’avermi atteso tanto,
E avrai negli occhi un rapido sospiro.
Giuseppe Ungaretti
(da Sentimento del tempo, Vallecchi 1933)
Centoventi anni fa, esattamente il 24 maggio 1900, nasceva Eduardo De Filippo
In questi giorni di pandemia, il mio pensiero è andato a un’altra epidemia, quella del colera avutasi a Napoli verso la fine dell’estate del 1973. E allora ho “scavato” nel mio ampio archivio cartaceo preso dal desiderio/curiosità di rileggermi quanto aveva detto, fra gli altri, il grande Eduardo. Di seguito riporto alcuni suoi versi.
Alla cozza che fu imputata di causare il colera, Eduardo fa dire a sua discolpa:
…. “Ecco vedete…
Affunn’ ‘o mare ‘a còzzeca s’arrangia”
dicette l’imputata, “…e lo sapete…
là ssotto, presideè, pare l’inferno!
Chello c’arriva, ‘a còzzeca se mangia:
si arriva mmerda, arriva dall’esterno!”
Denuncia chiara sugli errori degli uomini. Infatti, Eduardo aggiunse pure: “I responsabili devono essere individuati bene e io desidero che la mia voce si unisca a quella dei lavoratori, sia nella protesta che nell’accusa”. Parole che, purtroppo, risuonano attualissime: di chi la colpa di tanto dolore e morte? Chi i responsabili dei tantissimi morti, specie, in Lombardia? Si sarebbero limitati i decessi se si fossero istituite altre zone rosse nella bergamasca, come la chiusura dei paesi di Alzano Lombardo e Nembro? Scelte sbagliate o operate lucidamente per interessi di “taluni”? Possiamo essere certi che, oggi, Eduardo, proporrebbe ancora quella sua “protesta/accusa”. Tra le poesie scritte in quei giorni, vi è anche una che ha per tema la morte, dal titolo “‘E bbalice”.
Il poeta non sa dove lo condurrà questo suo ultimo viaggio e quindi è indeciso cosa mettere nella valigia e così s’interroga:
….
Me porto appriesso ‘ fatte”…
o pure:
“Mo me porto ‘fessarie”…
Io me ce songo miso
c’’o pensiero,e
‘a verità
ve dico chiaro e ttunno,
aggio ditto:
“Mo faccio ‘ capa mia:
me voglio purtà ‘ e fatte all’auto munno,
e lasso ‘ntera tutt’’e fessarie”.
Lasciamo le fesserie agli uomini –ci dice Eduardo- ancora e sempre “maestro” pronto al sagace ammonimento tra l’amaro e il dolce. E un Eduardo che sempre ammaestra gli uomini anche dall’aldilà, è il tema di una mia breve poesia in vernacolo scritta di recente, mio modesto omaggio per il centoventesimo anno della sua nascita.
‘O presebbio
È sempe juorno e ‘o cielo è chieno ‘e stelle
e ‘a nuttata ccà nun vene maje.
E sotto, ‘o munno è comme a ‘nu presebbio
ca cumbatte, spanteca e se fa male assaje.
Nun s’è capito ancora comme se campa!
Antonio Donadio
(Inedito)
Trad. (Qui dove mi trovo ora) E’ sempre giorno e il cielo è pieno di stelle/e non giunge mai la notte./E sotto (sulla terra), il mondo appare come fosse un presepe/ che combatte, spasima e si fa molto male./ Non si è capito ancora come si deve vivere!
BUONA PASQUA con i versi di padre David Maria Turoldo
A stento il nulla
No, credere a Pasqua non è
giusta fede:
troppo bello sei a Pasqua!
Fede vera
è al venerdì santo
quando Tu non c’eri
lassù!
Quando non una eco
risponde
al suo alto grido
e a stento il Nulla
dà forma
alla tua assenza.
David Maria Turoldo
Nota bibliografica: da “ Canti ultimi” Garzanti, novembre 1992 -Sezione: “Credere a Pasqua… “ –
E’ facile credere al miracolo della Risurrezione quando lo spettro della morte è vinto. Difficile è aver speranza di fede e di salvezza nei momenti estremi del dolore. Anche Cristo fu preso da sgomento sulla croce, quando per un attimo pensò di essere stato abbandonato da Dio Padre. Cristo Gesù, uomo proprio come noi in questi giorni di profondo dolore e cordoglio.
Il 28 febbraio di quindici anni fa, moriva il poeta Mario Luzi. Il ricordo di Antonio Donadio
Il 28 febbraio del 2005 moriva il grande poeta Mario Luzi: “ Mario Luzi senza dubbio assieme a Ungaretti e Montale compone la triade dei grandi poeti del Novecento” (Carlo Bo). Ho conosciuto e frequentato per ben quindici anni il poeta fiorentino. Lo conobbi nell’aprile del 1989 presso l’Istituto Universitario ”Sant’Orsola Benincasa” di Napoli. Ai miei occhi apparve proprio come da bambini immaginiamo un poeta: alto, molto esile, dal tono di voce basso, quasi impercettibile, con lunghe pause ritmate. Gentilissimo, mi concesse una lunga intervista. Fu allora che gli chiesi cosa fosse la Poesia. Mi rispose: “La Poesia è la vita al quadrato: se mi sa dire cos’è la vita… saprà cos’è la Poesia”. La vita al quadrato, originalissima definizione, che diverrà poi nel 2014 il titolo di un mio saggio sulla sua poetica. Da quel giorno (mi concesse il suo numero di telefono invitandomi anche di andarlo a trovare nella sua casa di Firenze), ebbi modo d’incontrarlo più volte e di proporgli in lettura i miei versi. Apprezzò molto il mio “Per le terre di Grecia”(1993): “E’ un gran bel libro. Il suo è un nome che “si muove”. Diceva così di quei giovani poeti in cui ravvisava qualche merito e anche originalità. Qualche anno dopo, nel 1996, il mio “L’alba nella stanza” uscì con una sua preziosa nota introduttiva. In occasione dei suoi 87 anni, Firenze lo festeggiò con un’indimenticabile serata a Palazzo Vecchio. Era il 20 ottobre del 2001, poco prima vi era stato l’orribile strage del 1° settembre. Non potetti non chiedergli un commento: “Di fronte a questi tragicissimi episodi, possiamo e dobbiamo certamente ridimensionare dentro di noi certe priorità che abbiamo forse arbitrariamente creduto tali e che vanno corrette alla luce di altre ipotesi, forse solo ipotesi”. E poi aggiunse, lui da cristiano convinto: “ Quella mussulmana è una grandissima civiltà, una grandissima cultura… mi domando: come si fa a dire che sono subalterni a noi? Non è possibile” . Parole che suonano ancora e più di ieri, come grande ammaestramento di vita da parte di un poeta, che ahimè, è poco “presente” perfino nelle aule scolastiche. E’ triste, se non vergognoso, che oggi siano definiti poeti, onesti parolieri di canzoni. Qualche giorno fa, in “ Uno mattina in famiglia” in onda su Rai 1, un noto giornalista ha citato alcuni versi di Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio – arcinota poesia di Montale- introducendoli come “una frase (!!) di Montale” ! Incontrai Luzi per l’ultima volta, esattamente un anno prima della sua scomparsa, il 25 febbraio 2004 a Firenze presso la libreria San Paolo per la presentazione del libro In queste braccia – Versi per la madre. Erano presenti altri importanti poeti: Luciano Luisi, Paola Lucarini Poggi, Marco Beck, Roberto Carifi, Maura del Serra, Curzia Ferrari e altri di cui, mi scuso, ma non ricordo il nome. Accadde un episodio da raccontarsi: Luzi arrivò con parecchio ritardo. Subito gli fu data la parola da Paola Lucarini Poggi, ma egli rifiutò. Avrebbe atteso il suo turno: gli interventi, infatti, seguivano l’ordine alfabetico. Mi successe, quindi, di intervenire, io, col cognome che inizia con la lettera”d”, prima di Luzi!
Rimandando i lettori ai suoi numerosi libri – dal primo: La Barca 1935 al postumo, Lasciami non Trattenermi, poesie ultime, 2009, – mi piace ricordarlo con Interno una stupenda lirica “familiare” da me antologizzata alcuni anni fa in ”Versi d’amore”. E’ tratta da “Onore del vero” (1957), libro in cui prorompe nel poeta una particolare esigenza conoscitiva: il “vero” da mero elemento realistico, assume il valore di conoscenza più intimamente avvertita. Nucleo sociale con al centro la rappresentazione di ”paesaggi” più intimi, più sentiti, quelli familiari: “tu ed io e tra noi due nostro figlio/ da stanza a stanza questo lume limpido”.
Interno
Si filtra le domeniche di sole nelle valli
nascoste, si sciama, se ne torna
paghi con fiori e tirsi da mettere nei vasi
agli angoli o alla luce dei vetri sulla madia.
Perdo il segno di questo libro aperto
dei mesi, degli anni. Rido, vedo
se levo il capo due finestre vive
dove vibra l’attesa delle rondini
e te che innalzi trofei lievi.
Un giorno, quale giorno? Tra questa primavera
e quest’inverno, un anno tra i tanti anni,
tu ed io e tra noi due nostro figlio,
da stanza a stanza questo lume limpido.
(da Onore del vero , Neri Pozza Editore, 1957)