PoesiadelNovecento – I Contemporanei

Poesie di poeti noti e meno noti del panorama letterario italiano … di Antonio Donadio

 

Una “fresca” poesia di Giorgio Soavi in questa torrida estate

Non so quanti lettori ricordino il poeta Giorgio Soavi, forse pochissimi. Poeta, che secondo me, vale la pena riscoprire: sorprendentemente moderno nel linguaggio e nei contenuti.
Attraverso l’uso di esplicite citazioni di versi notissimi di alcuni Grandi del passato, egli, per dirla con le parole di Giuliano Gramigna, “profitta con arguzia, centrando quasi sempre il colpo, di innesti alti che sono vere e proprie citazioni, appena beffarde” mescolandole a situazioni di vita quotidiana infarcite di termini di uso comune come rubinetti, penne biro, telefoni, tv.
Senza mai scadere nel banale, Soavi riveste questi oggetti di una dignità autonoma non filtrata d’icastiche rappresentazioni simboliste.
La poesia che ho scelto riporta in apertura il primo verso del celeberrimo idillio leopardiano “L’infinito”, (ricordiamo che quest’anno ricorre il bicentenario della sua composizione), ma già dal secondo verso, si assiste a un salto tematico e lessicale che si riveste di un’originale “beffarda” connotazione poetica.

Sempre caro mi fu
l’animale peloso,
segugio di casa
e fuori, se,
chinato nel suo angolo
mangia con un rumore
che, per amor tuo,
vorrei tanto imitare,
gli occhi soddisfatti,
il naso nero e fresco
il suo riposo, a terra.
E che riposo.
Sta fra i tuoi piedi
come chi sogna
di aver scavato il buco
e affonda il viso fra le tue
dita sepolte nelle scarpe.

Giorgio Soavi

(da Poesie per noi due. Ventidue illustrazioni di Renato Guttuso, Rizzoli 1980)

In questa poesia Soavi con sottile grazia mista a una sorta di sfrontata spavalderia, si augura di poter essere lui “l’animale peloso”, ovvero il suo cane, invidiato per quegli “occhi soddisfatti” per quel “suo riposo a terra”. Se ne sta tra i piedi dell’amata moglie Lidia, “come chi sogna/di aver scavato il buco” (velato riferimento al sogno montaliano di “cercare una maglia rotta nella rete” ) e fiero affonda il viso fra le” dita sepolte nelle scarpe”.
E’ un’immagine lieve, tenue, che suggerisce un momento di pausa nel ritmo convulso del giorno; un momento di serenità laddove l’appagamento del cane è spiato e rivestito di una trasposizione poetica da parte dell’uomo che da semplice spettatore sa, tuttavia, di essere partecipe di quel “salutare” clima familiare.
Un idillico momento d’aria fresca che Giorgio Soavi ci regala in un torrido pomeriggio d’agosto.

Giorgio Soavi, nato a Broni (Pavia) nel 1923 e morto a Milano nel 2008, è stato poeta, scrittore, saggista, giornalista. Collaboratore e amico di Indro Montanelli, si narra che fu lui a suggerire a quest’ultimo il titolo del quotidiano “Il Giornale” mentre Montanelli pensava a un altro nome: “ La Posta”.
La moglie Lidia, cui è dedicato il libro da cui è tratta la poesia in oggetto, era figlia di Adriano Olivetti.
Tra i libri di poesia citiamo:
L’America tutta d’un fiato, Mondadori 1959; La moglie che dorme, Mondadori 1963; Che amore e’, Garzanti 1988; Nella tua carnagione, ES 2005 Tra i romanzi: Le spalle coperte, Neri Pozza 1951; Sirena, Longanesi 1966; Memorie di un miliardario, Milano 1975; Un amore a Capri, Rizzoli 1981; Il Conte, Longanesi 1983, dedicato al suocero Adriano Olivetti.

Ho visto la … luna! Ricordi ed emozioni

Dello sbarco lunare ho due ricordi indelebili: la notte del 21 luglio 1969 – ero anch’io, assieme alla mia famiglia, davanti al televisore – e il 4 aprile dell’anno seguente.

Ricordo che da giorni e giorni si attendeva “la storica notte” con una somma di emozioni che è difficile enunciare: curiosità, stupore, meraviglia, ma anche un certo timore, un po’ di paura per quei “temerari” che avevano “l’ardire di profanare il suolo lunare” come dicevamo quelli che vedono nel progresso sempre mille mali pronti ad accadere.

Eccolo, infine, il “doppio” allunaggio nelle voci di Ruggero Orlando e di Tito Stagno! Era fatta: l’uomo aveva messo piede sulla Luna! L’anno dopo, il 4 aprile presso la Villa Comunale di Napoli ho goduto, poi, di un’irripetibile occasione: vedere da vicino un frammento di pietra lunare! E non solo.

La Rai, infatti, per celebrare l’eccezionale evento, all’interno di una sua struttura mobile, aveva allestito un piccolo ma irripetibile museo itinerante. Potetti così ammirare non solo un frammento di pietra lunare di circa 34 grammi che faceva parte di una roccia più grande di quasi un kilo che i piloti dell’Apollo 11 avevano raccolto nel Mare della Tranquillità, ma anche altri oggetti: le tute spaziali di Aldrin e di Lovel, un casco con visiera per protezione contro i raggi solari, un frammento bruciacchiato del modulo lunare, il fodero di una macchina fotografica usata dagli stessi astronauti e un apparecchio sanitario a uso didattico.

L’emozione fu enorme, ma, inaspettatamente, svanì quasi subito: dinanzi ai miei occhi, a pochi centimetri da me, un pezzo di luna, proprio quella luna da sempre oggetto di mille interrogativi, di mille suggestioni, di mille turbamenti.

Provai quasi un senso di rifiuto: quel pezzo di roccia, che a me ricordava tanto il carbone dolce che viene regalato il giorno della befana, non poteva essere la Luna, la meravigliosa Luna, quella cantata dai poeti e da sempre silenziosa e partecipe testimone degli amanti.

Chissà, pensai, cosa avrebbe detto Leopardi che riposa poco distante dalla stessa Villa Comunale: “ Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna? ”. Sarebbe stupito nel vedersela lì, fredda, materiale, impoetica? Oppure ne sarebbe stato felice, avrebbe applaudito all’incredibile impresa sottolineando “ Son dell’umana gente/Le magnifiche sorti e progressive”.

Ma la Luna resta e resterà sempre oggetto poetico insuperabile. Il suo fascino misterioso non avrà mai fine. “Papà com’è nata la luna?” mi chiese, tanti anni or sono, mio figlio Daniele. Ed io non potetti che rispondergli con una delle mie ministorie che di volta in volta, per farlo addormentare, inventavo per lui. Eccola:

La notte in cui nacque la luna

I ladri della luce rubarono il Sole.

Sarà il regno del buio. Saremo i padroni della notte”.

E fu così che tutte le Stelle si fecero vicine vicine,

le une accanto alle altre: era nata la Luna.

da “Il principe del Pinocchio” (Inedito)

Si è spento il poeta veronese Arnaldo Ederle

Nelle coperte di libri

Nelle coperte di libri avvolto
tutta la mia esistenza ho vissuto.
Pagine e pagine rimboccate
fin che ci sei dentro, poi
quando esci, ecco il tepore
dell’aria che ti sventola come
fuscello nel campo, e ti gira
di qua e di là, ti mostra cos’è
veramente la vita.
Ma ti ricordi dell’altra
vissuta al caldo delle coperte
e rivedi i suoi paesaggi scarni
o pieni di esistenze che lottano
o si amano, che gridano o se ne
stanno lì accucciate a subire
il vento terribile, a volte,
delle tempeste e degli uragani
che si abbattono sulle piante
sulle pietre, agli angoli di ristoro,
e a quelli delle discussioni
chiuse nel disaccordo
o nelle parziali ammissioni
dei perdenti.

Arnaldo Ederle

Da “ Poemetti per Negrura” CFR Edizioni, Piateda (SO) 2013

E’ con questa sua poesia che voglio salutare l’amico poeta Arnaldo Ederle, scomparso lo scorso mese di maggio. Sono versi splendidi che ben “fotografano” la condizione esistenziale ed umana dell’essere poeta oggi o forse da sempre. Nessun commento, non altro voglio aggiungere. Lascio la voce a questi versi, come testamento doloroso ma terribilmente carico di vita com’è la vita di ogni poeta che con si spegne con il concludersi del passaggio terreno. Ciao caro Arnaldo.

Arnaldo Ederle, nato a Verona nel 1936 e ivi scomparso il 3 maggio 2019. Poeta, narratore, critico e traduttore, ha insegnato Fonologia delle lingue romanze presso l’Istituto di Glottologia dell’Università di Padova in Verona. Corposa la sua bibliografia. In poesia, tra l’altro, ha pubblicato: Le pietre pelose ben osservate (Ferrari, 1965); Partitura (Guanda, 1981), Il fiore d’Ofelia, introd. di G. Raboni (Società di Poesia-Bertani, Milano, 1984), Varianti di stagione prefaz. di S. Verdino, (Empiria, Roma 2005), Stravagante è il tempo (Empiriria Roma, 2009), Poemetti per Negrura (CFR Edizioni, 2013), Poemetti e racconti in versi (LietoColle, 2016), I giganti e gli uomini (LietoColle, 2017). Molti i riconoscimenti e i premi. E’ stato tradotto in spagnolo, inglese, olandese

N.D.R: Rimando i lettori alla rubrica “PoesiadelNovecento- I Contemporanei “ curata da Antonio Donadio in cui, alla data 24 marzo 2014, possono leggere “ Poemetti per Negrura” di Arnaldo Ederle.

200 anni fa Giacomo Leopardi componeva L’INFINITO, capolavoro della poesia di tutti i tempi

Era il 1819 e il ventunenne Giacomo Leopardi “ci donava” quello che resta uno dei capolavori della letteratura mondiale di tutti i tempi: L’infinito. Per la precisione – da una nota dello stesso poeta- sembra essere stato scritto nell’autunno del 1819. Non posso, quindi, non fare un’eccezione e parlarne in questa mia rubrica che normalmente si occupa di poeti contemporanei.

L’infinito

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma, sedendo e mirando, interminati
spazi di lá da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Cosí tra questa
immensità s’annega il pensier mio;
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Leggiamo ciò che, l’anno dopo, Leopardi scrisse nel suo Zibaldone:

…il desiderio dell’infinito, perché allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione ed il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario…”

Di seguito un estratto dal mio saggio:“Ragione ed immaginazione nell’Infinito leopardiano” (1998) confluito, poi, parzialmente in “Un infinito commento: critici, filosofi e scrittori alla ricerca dell’infinito di Leopardi” a cura di Vincenzo Guarracino- Stamperia dell’arancio, (AP) 2001)

  • Ma sedendo e mirando…”.

Al di là dell’elegante consonanza, i due gerundi “sedendo e mirando” non possono rappresentate solo letteralmente un fatto meramente realistico cioè lo star seduti ed il guardare attentamente. Il sedere, poi, nelle condizioni reali in cui il poeta viene a trovarsi, cioè di fronte all’alta siepe, implicherebbe minore possibilità di vista che poi mal si concilierebbe con il mirare; questi due verbi indicano qualcosa d’altro. Il Leopardi, infatti, considera il verbo “sedeo” primitivo di “sedare”, mitigare, (vedasi Zibaldone, pp. 3020/21); e cosa c’è da mitigare se non l’affanno di conoscenza davanti ai propri limiti logico-razionali? Sedere, quindi, come mitigare l’impossibilità dell’uomo razionale nella conoscenza di ciò che travalica il reale, l’infinto; il mirare, quindi, non un guardare attentamente davanti a sé, ma uno sprofondare in sé, nel proprio animo, per poter passare al secondo momento, terreno dell’immaginazione: “ Io nel pensier mi fingo”. L’immaginazione come mezzo di conoscenza.

  • Di là da quella”.

Da cosa? Non credo, come comunemente viene affermato “di là dalla siepe”, perché non solo si resterebbe ancora nel campo della conoscenza reale, (seppure si considera la siepe come simbolo di limite alla conoscenza reale), ma “da tanta parte dell’ultimo orizzonte”. Infatti, non solo tale lettura interpretativa è consequenziale ai due distinti campi di conoscenza, quello reale e quello immaginato, ma soprattutto perché solo così si sconfina veramente verso il non finito, il non conosciuto; solo superando la barriera dell’ultimo orizzonte visibile (ovvero tutto ciò che è scientificamente conosciuto dall’uomo) si può iniziare a “conoscere con l’immaginazione”.

Originalissima ed elegantissima cartolina liberty del 1912 che oltre al ritratto del poeta e accenni biobibliografici, reca anche un vero mini libro di ben 15 paginette (Poesie Scelte) Casa Editrice A. Guarnieri Milano, 1912.
Proprietà: Archivio Bibliografico di Antonio Donadio

Buona Pasqua con i versi di Mario Luzi

A distanza di vent’anni, a cura di don Antonio Tarzia e Giovanni Bonanno con illustrazioni del maestro Alberto Schiavi, è stato ristampato il testo poetico Via Crucis al Colosseo del grande poeta fiorentino Mario Luzi. Lo stralcio che segue è stato tratto dall’introduzione critica L’ascesa luziana vero la Luce di Antonio Donadio.

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Non era solo un dubbio di insufficienza e di inadeguatezza, era anche di più il timore che la mia disposizione interiore non fosse così limpida e sincera quanto il soggetto richiedeva”. Questa la schietta confessione di Mario Luzi nell’accingersi, su invito di Giovanni Paolo II, a un commento in versi sulla Passione del Venerdì Santo per la Pasqua del 1999. E quello di Luzi, sarà un Cristo spogliato del divino, un Cristo umano, assai dolente, dilaniato dal dolore, dal dubbio, dalla solitudine fino all’estremo atto di lasciarsi andare quasi al fallimento della missione che le Scritture avevano annunciato. Gesù, nella tribolazione della Via Crucis, confida al Padre la sua angoscia e i suoi pensieri dibattuti tra il divino e l’ umano, la sua afflizione e la sua soprannaturale certezza. 

Padre mio, mi sono affezionato alla terra
quanto non avrei creduto.
È bella e terribile la terra.
Io ci sono nato quasi di nascosto,
ci sono cresciuto e fatto adulto
in un suo angolo quieto
tra gente povera, amabile e esecrabile.
Mi sono affezionato alle sue strade,
mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti,
le vigne, perfino i deserti.
È solo una stazione per il figlio Tuo la terra
ma ora mi addolora lasciarla
e perfino questi uomini e le loro occupazioni,
le loro case e i loro ricoveri
mi dà pena doverli abbandonare.
Il cuore umano è pieno di contraddizioni
ma neppure un istante mi sono allontanato da te.
Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi
o avessi dimenticato di essere stato.
La vita sulla terra è dolorosa,
ma è anche gioiosa: mi sovvengono
i piccoli dell’uomo, gli alberi e gli animali.
Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario.
Congedarmi mi dà angoscia più del giusto.
Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?
Il terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito?
La nostalgia di te è stata continua e forte,
tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna.
Padre, non giudicarlo
questo mio parlarti umano quasi delirante,
accoglilo come un desiderio d’amore,
non guardare alla sua insensatezza.
Sono venuto sulla terra per fare la tua volontà
eppure talvolta l’ho discussa.
Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego.
Quando saremo in cielo ricongiunti
sarà stata una prova grande
ed essa non si perde nella memoria dell’eternità.
Ma da questo stato umano d’abiezione
vengo ora a te, comprendimi, nella mia debolezza.
Mi afferrano, mi alzano alla croce piantata sulla collina,
ahi, Padre, mi inchiodano le mani e i piedi.
Qui termina veramente il cammino.
Il debito dell’iniquità è pagato all’iniquità.
Ma tu sai questo mistero. Tu solo.

La Via Crucis al Colosseo” non può essere considerato un unicum nella produzione poetica di Luzi, ma il frutto di una felice circostanza che va a incastrarsi perfettamente in un più ampio e articolato processo umano, spirituale e poetico del grande poeta fiorentino. Infatti, di là dal credere che un’ opera su commissione, seppure così prestigiosa, possa essere meno “sentita”, essa giunge forse nel momento più felice, quasi all’apice (Luzi morirà solo pochi anni dopo, nel 2005 a poco più di novantuno anni) della crescita spirituale del poeta.

da Mario Luzi – Alberto Schiavi Via Crucis a cura di Antonio Tarzia e Giovanni Bonanno Effatà Editrice 2019

La Redazione