PoesiadelNovecento – I Contemporanei
Poesie di poeti noti e meno noti del panorama letterario italiano … di Antonio Donadio
Si è spento il poeta veronese Arnaldo Ederle
Nelle coperte di libri
Nelle coperte di libri avvolto
tutta la mia esistenza ho vissuto.
Pagine e pagine rimboccate
fin che ci sei dentro, poi
quando esci, ecco il tepore
dell’aria che ti sventola come
fuscello nel campo, e ti gira
di qua e di là, ti mostra cos’è
veramente la vita.
Ma ti ricordi dell’altra
vissuta al caldo delle coperte
e rivedi i suoi paesaggi scarni
o pieni di esistenze che lottano
o si amano, che gridano o se ne
stanno lì accucciate a subire
il vento terribile, a volte,
delle tempeste e degli uragani
che si abbattono sulle piante
sulle pietre, agli angoli di ristoro,
e a quelli delle discussioni
chiuse nel disaccordo
o nelle parziali ammissioni
dei perdenti.
Arnaldo Ederle
Da “ Poemetti per Negrura” CFR Edizioni, Piateda (SO) 2013
E’ con questa sua poesia che voglio salutare l’amico poeta Arnaldo Ederle, scomparso lo scorso mese di maggio. Sono versi splendidi che ben “fotografano” la condizione esistenziale ed umana dell’essere poeta oggi o forse da sempre. Nessun commento, non altro voglio aggiungere. Lascio la voce a questi versi, come testamento doloroso ma terribilmente carico di vita com’è la vita di ogni poeta che con si spegne con il concludersi del passaggio terreno. Ciao caro Arnaldo.
Arnaldo Ederle, nato a Verona nel 1936 e ivi scomparso il 3 maggio 2019. Poeta, narratore, critico e traduttore, ha insegnato Fonologia delle lingue romanze presso l’Istituto di Glottologia dell’Università di Padova in Verona. Corposa la sua bibliografia. In poesia, tra l’altro, ha pubblicato: Le pietre pelose ben osservate (Ferrari, 1965); Partitura (Guanda, 1981), Il fiore d’Ofelia, introd. di G. Raboni (Società di Poesia-Bertani, Milano, 1984), Varianti di stagione prefaz. di S. Verdino, (Empiria, Roma 2005), Stravagante è il tempo (Empiriria Roma, 2009), Poemetti per Negrura (CFR Edizioni, 2013), Poemetti e racconti in versi (LietoColle, 2016), I giganti e gli uomini (LietoColle, 2017). Molti i riconoscimenti e i premi. E’ stato tradotto in spagnolo, inglese, olandese
N.D.R: Rimando i lettori alla rubrica “PoesiadelNovecento- I Contemporanei “ curata da Antonio Donadio in cui, alla data 24 marzo 2014, possono leggere “ Poemetti per Negrura” di Arnaldo Ederle.
200 anni fa Giacomo Leopardi componeva L’INFINITO, capolavoro della poesia di tutti i tempi
Era il 1819 e il ventunenne Giacomo Leopardi “ci donava” quello che resta uno dei capolavori della letteratura mondiale di tutti i tempi: L’infinito. Per la precisione – da una nota dello stesso poeta- sembra essere stato scritto nell’autunno del 1819. Non posso, quindi, non fare un’eccezione e parlarne in questa mia rubrica che normalmente si occupa di poeti contemporanei.
L’infinito
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma, sedendo e mirando, interminati
spazi di lá da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Cosí tra questa
immensità s’annega il pensier mio;
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Leggiamo ciò che, l’anno dopo, Leopardi scrisse nel suo Zibaldone:
“ …il desiderio dell’infinito, perché allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione ed il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario…”
Di seguito un estratto dal mio saggio:“Ragione ed immaginazione nell’Infinito leopardiano” (1998) confluito, poi, parzialmente in “Un infinito commento: critici, filosofi e scrittori alla ricerca dell’infinito di Leopardi” a cura di Vincenzo Guarracino- Stamperia dell’arancio, (AP) 2001)
-
“Ma sedendo e mirando…”.
Al di là dell’elegante consonanza, i due gerundi “sedendo e mirando” non possono rappresentate solo letteralmente un fatto meramente realistico cioè lo star seduti ed il guardare attentamente. Il sedere, poi, nelle condizioni reali in cui il poeta viene a trovarsi, cioè di fronte all’alta siepe, implicherebbe minore possibilità di vista che poi mal si concilierebbe con il mirare; questi due verbi indicano qualcosa d’altro. Il Leopardi, infatti, considera il verbo “sedeo” primitivo di “sedare”, mitigare, (vedasi Zibaldone, pp. 3020/21); e cosa c’è da mitigare se non l’affanno di conoscenza davanti ai propri limiti logico-razionali? Sedere, quindi, come mitigare l’impossibilità dell’uomo razionale nella conoscenza di ciò che travalica il reale, l’infinto; il mirare, quindi, non un guardare attentamente davanti a sé, ma uno sprofondare in sé, nel proprio animo, per poter passare al secondo momento, terreno dell’immaginazione: “ Io nel pensier mi fingo”. L’immaginazione come mezzo di conoscenza.
-
“Di là da quella”.
Da cosa? Non credo, come comunemente viene affermato “di là dalla siepe”, perché non solo si resterebbe ancora nel campo della conoscenza reale, (seppure si considera la siepe come simbolo di limite alla conoscenza reale), ma “da tanta parte dell’ultimo orizzonte”. Infatti, non solo tale lettura interpretativa è consequenziale ai due distinti campi di conoscenza, quello reale e quello immaginato, ma soprattutto perché solo così si sconfina veramente verso il non finito, il non conosciuto; solo superando la barriera dell’ultimo orizzonte visibile (ovvero tutto ciò che è scientificamente conosciuto dall’uomo) si può iniziare a “conoscere con l’immaginazione”.
Originalissima ed elegantissima cartolina liberty del 1912 che oltre al ritratto del poeta e accenni biobibliografici, reca anche un vero mini libro di ben 15 paginette (Poesie Scelte) Casa Editrice A. Guarnieri Milano, 1912.
Proprietà: Archivio Bibliografico di Antonio Donadio
Buona Pasqua con i versi di Mario Luzi
A distanza di vent’anni, a cura di don Antonio Tarzia e Giovanni Bonanno con illustrazioni del maestro Alberto Schiavi, è stato ristampato il testo poetico Via Crucis al Colosseo del grande poeta fiorentino Mario Luzi. Lo stralcio che segue è stato tratto dall’introduzione critica L’ascesa luziana vero la Luce di Antonio Donadio.
“Non era solo un dubbio di insufficienza e di inadeguatezza, era anche di più il timore che la mia disposizione interiore non fosse così limpida e sincera quanto il soggetto richiedeva”. Questa la schietta confessione di Mario Luzi nell’accingersi, su invito di Giovanni Paolo II, a un commento in versi sulla Passione del Venerdì Santo per la Pasqua del 1999. E quello di Luzi, sarà un Cristo spogliato del divino, un Cristo umano, assai dolente, dilaniato dal dolore, dal dubbio, dalla solitudine fino all’estremo atto di lasciarsi andare quasi al fallimento della missione che le Scritture avevano annunciato. Gesù, nella tribolazione della Via Crucis, confida al Padre la sua angoscia e i suoi pensieri dibattuti tra il divino e l’ umano, la sua afflizione e la sua soprannaturale certezza.
Padre mio, mi sono affezionato alla terra
quanto non avrei creduto.
È bella e terribile la terra.
Io ci sono nato quasi di nascosto,
ci sono cresciuto e fatto adulto
in un suo angolo quieto
tra gente povera, amabile e esecrabile.
Mi sono affezionato alle sue strade,
mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti,
le vigne, perfino i deserti.
È solo una stazione per il figlio Tuo la terra
ma ora mi addolora lasciarla
e perfino questi uomini e le loro occupazioni,
le loro case e i loro ricoveri
mi dà pena doverli abbandonare.
Il cuore umano è pieno di contraddizioni
ma neppure un istante mi sono allontanato da te.
Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi
o avessi dimenticato di essere stato.
La vita sulla terra è dolorosa,
ma è anche gioiosa: mi sovvengono
i piccoli dell’uomo, gli alberi e gli animali.
Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario.
Congedarmi mi dà angoscia più del giusto.
Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?
Il terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito?
La nostalgia di te è stata continua e forte,
tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna.
Padre, non giudicarlo
questo mio parlarti umano quasi delirante,
accoglilo come un desiderio d’amore,
non guardare alla sua insensatezza.
Sono venuto sulla terra per fare la tua volontà
eppure talvolta l’ho discussa.
Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego.
Quando saremo in cielo ricongiunti
sarà stata una prova grande
ed essa non si perde nella memoria dell’eternità.
Ma da questo stato umano d’abiezione
vengo ora a te, comprendimi, nella mia debolezza.
Mi afferrano, mi alzano alla croce piantata sulla collina,
ahi, Padre, mi inchiodano le mani e i piedi.
Qui termina veramente il cammino.
Il debito dell’iniquità è pagato all’iniquità.
Ma tu sai questo mistero. Tu solo.
“La Via Crucis al Colosseo” non può essere considerato un unicum nella produzione poetica di Luzi, ma il frutto di una felice circostanza che va a incastrarsi perfettamente in un più ampio e articolato processo umano, spirituale e poetico del grande poeta fiorentino. Infatti, di là dal credere che un’ opera su commissione, seppure così prestigiosa, possa essere meno “sentita”, essa giunge forse nel momento più felice, quasi all’apice (Luzi morirà solo pochi anni dopo, nel 2005 a poco più di novantuno anni) della crescita spirituale del poeta.
da Mario Luzi – Alberto Schiavi Via Crucis a cura di Antonio Tarzia e Giovanni Bonanno Effatà Editrice 2019
La Redazione
Quando la pioggerellina di marzo annunciava la Primavera! Dedicato a Greta Thunberg
Leggiamo (o rileggiamo):
Che dice la pioggerellina di marzo? di Angiolo Silvio Novaro
Che dice la pioggerellina
di marzo, che picchia argentina
sui tegoli vecchi
del tetto, su i bruscoli* secchi
dell’orto, sul fico e sul muro
ornati di gemmule d’oro?
Passata è l’uggiosa invernata,
passata, passata!
Di fuor dalla nuvola nera,
di fuor dalla nuvola bigia,
che in cielo si pigia,
domani uscirà primavera
con pieno il grembiale
di tiepido sole,
di fresche viole,
di primule rosse, di battiti d’ale,
di nidi,
di gridi
di rondini, ed anche
di stelle di mandorlo, bianche …
Ciò dice la pioggerellina
di marzo, che picchia argentina
sui tegoli vecchi
del tetto, su i bruscoli secchi
dell’orto, sul fico e sul moro
ornati di gemmule d’oro.
Ciò canta, ciò dice;
e il cuor che l’ascolta è felice.
*pianticelle ed erbe
(da Diego e Nino Valeri Mattino – Antologia di letture italiane Volume I Marzorati – Milano 1950)
La primavera così cantata da Novaro, sembra quasi la narrazione di un tempo mitico, mai realmente esistito, e son trascorsi solo 100 anni o poco più. Scritta infatti nel 1910 (Il cestello Poesie per i piccoli di Angiolo Silvio Novaro illustrate da Domenico Buratti Fratelli Treves) questa poesia, pubblicata in tantissime antologie scolastiche e non (intere generazioni di alunni la impararono a memoria), fu riproposta tra gli altri anche da Diego Valeri che assieme al nipote Nino, nel 1950, l’inserì in questa pubblicazione della Marzorati. Versi in cui si assiste alla graduale esplosione della primavera. Una leggera pioggia (“pioggerellina di marzo”) non temuta da nessuno, anzi attesa perché annuncia la fine del freddo inverno, diventa messaggera dell’arrivo della bella stagione. Si annuncia “picchiando “ sulle case, sull’orto, sulle prime gemme d’oro. L’invero uggioso è passato, dalle nuvole nere ecco svelarsi la primavera come luminosa fanciulla con un grembiale pieno “ di tiepido sole,/di fresche viole,/di primule rosse, di battiti d’ale,/di nidi,/di gridi/di rondini, ed anche/di stelle di mandorlo, bianche…” E lo straordinario spettacolo della natura diventa un canto che fa felice il cuore di chi ascolta. Al di là della personale traslitterazione poetica di un’ intima, personale, lettura dei fenomeni naturali legati all’arrivo della primavera, sono propri questi fenomeni che oggi sembrano scomparsi “grazie” all’uomo e al suo scellerato attacco alla Natura tutta. Non è forse anche questo che Greta Thunberg nel suo giovanile ma fermo e disperato urlo teme che vada definitivamente smarrito tra dieci, cinquanta o forse cento anni?
Anche Diego Valeri scelse, spesso, come tema la primavera; a me piace ricordare questa sua breve lirica in cui forte vibra il contrasto tra lo stato d’animo del poeta “il cuore è stanco” e i dolci, luminosi segnali della primavera che sta per arrivare, similmente in Novaro ma con esito differente: non bastano, infatti, a lenire il suo dolore. La Natura come artefice primaria del nostro vivere. E’ questo quello che l’uomo d’oggi tende a dimenticare o, addirittura, a negare.
Primavera
Sotto la fuga leggera del vento
s’apre il ventaglio del mandorlo bianco.
Alto sta un cielo di rosa e d’argento.
Ma il cuore è stanco.
Diego Valeri
(da Diego Valeri Terzo Tempo, Mondadori 1950)
Angiolo Silvio Novaro (Diano Marina 1866 – Oneglia 1938), poeta, traduttore e imprenditore (la madre Paola Sasso fu la fondatrice dell’omonimo, famoso, oleificio) Tra i suoi testi : Il cestello Poesie per i piccoli, Fratelli Treves, 1910; .Il cuore nascosto, Fratelli Treves, 1920; Che dice la pioggerellina di marzo, Zanibon,1930; Tempietto, Mondadori, 1939; Il fabbro armonioso, Treves 1919 dedicato alla memoria del figlio Jacopo morto durante la prima guerra mondiale. Da sottolineare il suo lavoro di traduttore: per la Mondadori, tradusse, nel 1932, L’isola del tesoro, di Robert Louis Stevenson, libro letto da intere generazioni di ragazzi.
Diego Valeri (Piove di Sacco1887 – Roma 1976) poeta, scrittore, traduttore. La natura fu al centro della sua poetica. Una natura come autonomo elemento vivente senza infingimenti simbolisti. Tra le sue numerose pubblicazioni: Le gaie tristezze, Sandron, Palermo 1913; Campanellino, SEI, 1928; Scherzo e finale, Mondadori, 1937; Terzo tempo, Mondadori, 1950; Il flauto a due canne, Mondadori, 1958; Verità di uno, Mondadori, 1970; Calle del vento, Mondadori, 1975.
Novità in libreria: LUNARIO DI DESIDERI a cura di Vincenzo Guarracino
Si commetterebbe un madornale errore definire, tout court, “Lunario di Desideri (DiFelice Edizioni, Martinsicuro (TE), 2019, pagg. 348 Euro, 25,00), a cura del poeta e critico letterario Vincenzo Guarracino, un’antologia di poesie d’amore.
Non è, credetemi, la “solita” antologia. Lunario che definirei come un delizioso, originale trattato a più voci, quelle dei tanti poeti ospiti, che si avvale di una parte introduttiva, che in realtà è un pregevole mini saggio sull’ars amandi a firma del prof. Guarracino.
O meglio ancora, mi spingerei a definire questo “Lunario” un’” Amorosa Comedia” che vede al fianco di Guarracino, un Catullo nelle vesti del Virgilio dantesco. Il viaggio in cui il poeta traghettatore ci conduce, si snoda in mille gironi quanti sono i rivoli del sentimento amoroso argomentati, singolarmente, dai versi di noti e meno noti poeti italiani contemporanei. “Il Liber” di Catullo, quindi, come guida e paradigmatico indice dell’intero Lunario. Guarracino, premurosamente, prende per mano il lettore fornendogli i necessari strumenti per una lettura attenta e coinvolgente, fin dalla stessa definizione della parola “amore”: “Ma cosa vuol dire esattamente la parola “amore”? Legato etimologicamente all’accadico amaru (“conoscenza”), il verbo “amare”, come precisava anche il vescovo Isidoro di Castiglia, implica, prima e forse più ancora dell’aspetto emotivo e morale, essenzialmente un forte coinvolgimento di sensi (dilectio carnalis, “attrazione sessuale” Etymologiae, VIII, 2,7).”
E poi ancora, interrogarsi sul Basium (bacio). Dopo essersi soffermato sulla comparsa e il suo diverso uso sulla scena letteraria di questo termine (basium o anche savium), il curatore sintetizza il tutto rifacendosi a un delizioso epigramma anonimo dell’Anthologia Latina di cui riporto la traduzione in italiano: “Baci se ne danno alle mogli, baci se ne danno alle amiche/ ma i baci più baci son quelli che uniscono labbra impudiche”.
Molti i poeti presenti, dicevo. alcuni noti o notissimi quali Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Valerio Magrelli, Paolo Ruffilli, Gian Mario Villalta, Ottavio Rossani, Giancarlo Pontiggia, Daniele Piccini, Guido Oldani, Dante Maffia, Vivian Lamarque, Maria Lenti, Alessandro Fo, Giuseppe Conte, Franco Buffoni, Luigi Cannillo, Arnaldo Ederle, Mauro Ferrari, Franco Loi, Massimo Scrignoli, Claudio Damiani o altri meno noti o più giovani. Lunario, veramente come testimonianza variegata e ricchissima di voci poetiche che hanno caratterizzato o caratterizzano l’evoluzione della poesia italiana del secondo Novecento e di questi primi vent’anni del secondo millennio.
Mi è molto gradito sottolineare che il Lunario ospita anche un inedito dell’amico poeta parmense/cavese Fabio Dainotti e, mi sia concesso, anche un mio inedito. Testi di seguito riportati con una sintesi del commento introduttivo di Vincenzo Guarracino.
“Per quel male l’amò senza ritorno”
Umberto Saba
Alla finestra
Mi affacciavo ogni giorno alla finestra,
per vederti arrivare da lontano,
e salutarti a gesti.
Tu la mano
destra agitavi; ebbi l’illusione
che potesse risorgere l’amore.
Fabio Dainotti
“Uno stato d’animo tra attesa e illusione, filtrati attraverso il ricordo di una stagione di irripetibili emozioni: Fabio Dainotti ci lascia intravedere, col viatico prezioso di un verso di Umberto Saba, una scena fondante del suo immaginario, legato com’è nella sua ripetitività (“ogni giorno”) a un sentimento inconcluso, che, vissuto “alla finestra”, dall’alto cioè e da una certa distanza, e a un gesto, più che a una voce, autorizza il “cuore” ad un’attesa dolorosa e interminabile,…”
Salva neppure tu che supponevo
Almeno tu pensavo
salva d’oltraggiosa rovina
scampata bella
sempre bella come sai come so
nel respiro impaziente al tuo
volteggiare nuda
distesa accanto
presunta unicità
del bacio che a promesse eternava
or or sorpreso sulla sgualcita guancia.
Salva neppure tu che supponevo.
(2014)
Antonio Donadio
“Il tempo è impietoso con tutti, deposita tracce incancellabili del suo passaggio: tracce “d’oltraggiosa rovina” che non risparmia niente e nessuno. Malae tenebrae Orci quae ominia bella devoratis, “ Maledette, maledette tenebre dell’Orco, che ogni cosa più bella divorate!” esclamava già Catullo (c. 3). E’ questo che dice Antonio Donadio, con un pensiero nostalgico ad un passato con il suo dolce ma anche con le sue ferite forse non più rimarginabili…”