Meditazioni ed emozioni ne “La settima Arte – Il senso della vita nel cinema e nel teatro”
E dal 17 al 19 febbraio gran finale della Rassegna Teatrale di Arte Tempra con il Musical “Gran Caffè ‘900”
CAVA DE’ TIRRENI (SA). Portare sulla scena teatrale una meditazione sulla vita dell’uomo e sul senso che ha o che le si può dare. Riflettere sul cammino alla nascita alla morte e sulle emozioni chiave che lo punteggiano: l’Amore in primo luogo, e poi il Tempo e l’uso che se ne fa, e le Paure che ci accompagnano e tanto spesso ci bloccano. Una sfida di quelle che fanno tremare le vene e i polsi, di quelle che piacciono ai tipi “tosti”, che, nonostante le insidie del caso, pur non nascondendosi la paura, non hanno nemmeno paura di aver coraggio. E tipo tosto Renata Fusco non sappiamo se lo nacque, ma certamente lo è, anche grazie al supporto che le viene a vari livelli da Mamma Clara Santacroce, che con lei fa vivere da anni la magnifica Compagnia dell’Arte Tempra.
Per dare senso alla sua voglia di riflettere sul senso, la Fusco ha ricercato, ha scartabellato, ha visionato testi, musiche, film, opere teatrali, e nel giro di poche settimane ha assemblato, integrato, costruito, provato e messo in scena.
È nato così, ed è andato in scena all’Auditorium De Filippis di Cava de’ Tirreni il 20 e il 21 gennaio scorsi, “La settima Arte – Il senso della vita tra cinema e teatro”, senza dubbio uno dei più complessi e difficili spettacoli nella storia del Gruppo e del suo annuale e prestigioso “Autunno cavese”. È anche uno dei più suggestivi, a cominciare dalla scenografia, fondata su sei cilindri telati e trasparenti che prendono luce da una fonte in alto. Da qui, in uno scenario “spaziale” e con tute “spaziali”, accompagnati da note misteriose e suggestive, con giochi di luce che sembrano provenire dall’oltre, escono lentissimamente gli attori e si collocano sulla scena. Da dove vengono? Qual è il “prequel”? Da un simbolico utero materno, da una culla spaziale in stile 2001 Odissea nello spazio ultima scena, dal mistero del nulla? E perché il primo approccio è il pianto? proprio per il primo respiro o anche per aver abbandonato l’edenica comodità o forse, come suggeriscono Lucrezio e Leopardi, per le difficoltà che dovremo affrontare?
Una voce fuori campo si pone queste domande, riprese e ampliate dalle prime parole degli attori, e il nostro immaginario grazie alla magia del teatro viene proiettato in una dimensione cosmica. A confronto del tutto, ci sentiamo tutti quanti Mr. Nemo Nobody, il mitico, cinematografico signor Nessuno, ultimo mortale in una Terra di Immortali. Chissà come e perché, sentiamo anche noi quel soffio d’angelo che ci ha immerso nel Lete della memoria al momento di nascere. E noi, come antichi bambini gettati ai confini del nulla, rimaniamo smarriti e incantati, di fronte al Tutto che ci circonda e che pure noi, nella nostra nullità, sentiamo di avere la forza e il privilegio di poter percepire e sfiorare. Un elastico infinito…
È cominciato così il nostro viaggio spaziale con la Settima Musa e la Settima Arte. In ideale empatia tra scena e platea, siamo stati accompagnati da sei magnifici “famelici attori” (Antonietta Calvanese, Gabriele Casale, Mario Fusco, Manuela Pannullo, Lella Zarrella, Gerardo Senatore), perfettamente affiatati, intensamente comunicativi, che hanno saputo coordinare alla grande la memoria, i movimenti, i legami fisici e spirituali che li univano come personaggi. Nello stesso tempo con misura e profondità sono rimasti se stessi come persone e ci hanno trasmesso l’impressione di essersi sentiti, anche loro come noi, bambini gettati ai confini del nulla, capaci di vedere il paradiso con le pupille dei bambini quando son bambini, di disperdersi di fronte all’incalzare del tempo, di sentire le vibrazioni dell’Amore, i brividi della paura e l’incanto del respiro stesso della vita. E poi con noi, e come noi, si sono avviati verso la conclusione ideale del cammino, che forse conclusione non è, perché, come Truman che nella sua fuga cinematografica varca la porta nera, è allora che forse comincia, o ricomincia il Grande Mistero.
Tante le tappe del viaggio spaziale in cui ci hanno portato i magnifici sette: Renata col suo pensiero e la sua scrittura di scena, e i sei famelici attori con la loro fisicità a ponte d’emozione.
Le prime tappe soprattutto, per le scottanti tematiche esistenziali e per la dinamicità con cui sono state toccate, ci hanno fatto volare con l’impatto tra finzione e realtà, tra magia musicale, evocazione delle immagini, meditazione delle parole.
Quando il bambino era bambino, risplendeva di una luce senza tempo…, trasformava un ruscello in un fiume… e si faceva le prime domande sulla misteriosa avventura che stava vivendo e le rivolgeva agli adulti, che gli ricordavano che era troppo bambino per avere queste risposte, ma in fondo essi stessi, noi stessi non è che siamo tanto capaci di darle, anche a noi stessi… Forse, se diventassimo bambini dopo essere già stati adulti, chissà. Ed ecco il richiamo allo strano caso di Benjamin Button, nato vecchio e morto bambino, come il Pipino di una famosa favola.
Meglio allora dare le istruzioni per l’uso della vita stessa. Pillole di saggezza… e di orgoglio.
Se non sei orgoglioso della tua vita, abbi la forza di ricominciare da zero… E…non permettere mai a nessuno di dirti che non sai fare qualcosa, neanche a chi ti ama…Se hai un sogno tu lo devi proteggere… vai e vivilo! Bravo Will Smith a dire tali parole al suo bambino anche nei momenti più neri. In fondo è anche questa la ricerca della felicità.
Ma la felicità non è solo nelle grandi cose: giusto ricordare Cechov e il suo gabbiano. E ricordare anche che la felicità non è grattacieli da scalare, ma sfide da vincere mettendosi alla prova. Ed è fatta di emozioni in punta di piedi. In fondo, come traspare nella parte corale più bella dello spettacolo, la felicità è il dono stesso della vita, il miracolo che essa rappresenta, istante dopo istante. Bisogna solo avere il terzo occhio vederlo. Forse anche quell’occhio magico che il cinema ci sa trasmettere, come nelle pupille sgranate di Hugo Cabret nel capolavoro di Scorsese.
Queste percezioni ci coinvolgono tutti, come esseri umani. È la livella delle emozioni: amore, tempo, morte. Già, tutti noi desideriamo l’amore, vorremmo avere più tempo e temiamo la morte.
Il tempo è l’unica moneta che dopo spesa non ci può più essere restituita e che noi sprechiamo incoscientemente, dimenticando che non è breve la vita, ma il tempo della vita in cui viviamo veramente (bellissimo il richiamo atavico a Seneca). E il mistero della morte… e dei 21 grammi dell’anima che volano via….
Eppure è sempre è l’amore, indecifrabile mistero, il centro motore, una necessità vitale. Il viaggio termina quando gli innamorati si incontrano, diceva Shakespeare, ma la realtà è che noi rimaniamo comunque sbalorditi dal potere assoluto che ha l’amore di alterare e definire la nostra esistenza. Compiere il viaggio senza essersi innamorati profondamente è come non aver vissuto…
Meditazioni, filosofia… ma i nostri “famelici attori” ci ricordano che è anche poesia, perché la poesia siamo noi… e mentre lo dicono e ci fanno sentire poeti e loro stessi si sentono poeti, oltre la recitazione. Potenza beata del teatro.
Ma come si fa a parlare di poesia, di senso della vita, senza citare il meraviglioso Robin Williams e l’altrettanto meraviglioso Attimo fuggente, che ha segnato una generazione e ancora oggi, per chi lo vede, è una pagina di Vangelo del cuore? Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza e in profondità, succhiando tutto il midollo della vita. Per non scoprire in punto di morte che non ero vissuto” Carpe Diem. Cogli l’attimo. Cogli la rosa quand’è il momento!
Eppure, ci sono giornate in cui quello che vediamo (o che proviamo noi stessi) è scioccante: il contatto col dolore fisico, con le ferite laceranti e invisibili che la malattia provoca nei pazienti e nei loro cari. Se non fossimo sconvolti, non saremmo umani.
Eppure, sembra quasi che noi esorcizziamo la morte, al punto da non parlarne, o da non affrontare il problema neppure nelle sedi adatte: ad esempio anche nelle lezioni di medicina. E qui la Settima Arte ci viene in soccorso, con l’evocazione molto opportuna di Patch Adams, della terapia del sorriso, del sempre meraviglioso Robin Williams con i suoi iperbolici giochi a naso rosso. Una piccola rivoluzione non per sconfiggere la morte, ma per raccogliere energie nella lotta familiare che si deve fare contro il suo spettro generato dalla malattia. Bello il monologo di Lella Zarrella, fascinosa mescolanza di fantasia e realtà, dato che la stessa Lella nel quotidiano è un “naso rosso”… Non c’era sipario, signori, c’era la vita…
E vita diventava anche la morte, se trattata con un po’ di empatia, dignità, decenza, magari anche con un po’ di umorismo, ma coscienti che il vero nemico non è la morte, ma l’indifferenza.
Può essere un nemico anche il futuro, che noi temiamo così, in astratto, e tante volte a scapito del presente. Non preoccuparti del futuro, oppure preoccupati ma sapendo che questo ti aiuta quanto masticare un chewing-gum per risolvere un’equazione algebrica. Il presente è verità, è amore possibile, se lo usiamo per conoscere, se siamo capaci di restare con noi stessi.
E non è forse un nemico è anche la Paura? Non ci aiuta, ma ci frena! L’unica paura che ci è lecita e non dannosa è la paura di aver paura…
Quanto allora dipende da come noi stessi affrontiamo le cose, non tanto da come le cose si catapultano su di noi! Noi diventiamo quello che crediamo di essere…
Appelliamoci allora a noi, alle nostre capacità di lotta e di reazione. Ma… dove mettiamo la questione Dio? I “magnifici sette” non la tralasciano, ma la interfacciano in modo stimolante con la capacità dell’uomo di raddoppiare le stelle polari dell’esistenza: da una parte la luce da scoprire agostinianamente dentro di noi, dall’altra la necessità di sperare in una presenza che vada oltre la sua vita terrena. È un cammino affascinante per gli stimoli che comporta, ma nello stesso tempo doloroso perché tante volte Dio Lo chiamiamo e lo invochiamo, e se Egli non risponde pensiamo che non esiste. Ed è un’invocazione dolorosa, una partita a scacchi con la Fede. La fede è una cosa astratta, complessa… è una pena dolorosa,come amare qualcuno che è lì fuori al buio e che non si mostra mai.
Parola del dubbio, ma anche dello slancio d’infinito. Parole da quel capolavoro che “Il settimo sigillo” di Bergman, padre del pensiero anni ’50-‘60, magnificamente riesumato per l’occasione.
In questa summa incalzante di valori e di immagini si sono concentrati i due terzi dello spettacolo, che già di per sé era esaustiva di molte delle problematiche proposte ed entrate nel cuore. La seconda parte procede più dilatata sull’applicazione di queste tematiche. Ed ecco, tra l’altro, le grandi scelte della vita, materializzate ad esempio in Marylyn Monroe (Monster) Fame. Ecco il senso della libertà, che viene in parte storicizzato e socializzato attraverso scene de “Il miglio verde”, sulla pena di morte” e “Le ali della libertà”, sulla figura di Mandela, o attraverso il richiamo alla riabilitazione dei carcerati, dove ancora una volta sono state richiamate esperienze degli attori stessi.
E poi, il lungo volo finale, un volo di angeli gravitante intorno a “Il cielo sopra Berlino”, intriso di poetici giochi di fantasia sulla dialettica tra divino e terreno, tra l’essere immateriale e immortale come un angelo e vivere godimenti e patimenti e piaceri e dispiaceri in una vita materiale proiettata verso la morte, ma sempre in cerca di uno sguardo vero… sincero.
Oramai però il cammino verso l’epilogo-non epilogo è tracciato. È il cammino verso il buco della morte, il mistero di Dio e dell’Eternità, che ci suona dentro come una batteria rombante o un’elettrizzante chitarra elettrica, come i fremiti derivanti dai Pink Floyd di Shine. Come l’elettricità che sentiva nel giorno della sua morte il protagonista di American Beauty, quando nel momento decisivo in cui perdiamo tutto ciò che è vita finalmente ci accorgiamo che c’è tutta un’intera vita dietro ogni cosa. Ci accorgiamo che a volte c’è tanta bellezza nel mondo che non riusciamo a accettarla… e tante volte siamo stati ciechi di fronte ad essa. E di fronte all’idea della morte ci esplode dentro come non mai la Pace, quella Pace che oggi come non mai ha bisogno di essere cantata. È questo fremito di Vita, troppe volte tardivo, la vera Stairway into to Heaven, la strada delle stelle verso il Paradiso.
È il respiro dell’eternità, se accendiamo la luce dell’Amore. Solo allora il cuore si può riempire come un palloncino che sta per scoppiare. E così quando si chiude il sipario e si accendono le luci, la mente è ancora con la pila in mano per districarsi nel labirinto di tante idee, ma il cuore è effettivamente pieno come un palloncino. Facciamolo volare: la strada verso il “nostro” Paradiso ha ancora qualche semaforo verde …
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