CAVA DE’ TIRRENI (SA). “Le voci di dentro”: buona la prima volta insieme per il Piccolo Teatro al Borgo e Arcoscenico
Sala del Vecchio Seminario in Piazza Duomo di Cava de’ Tirreni: in scena “Le voci di dentro”, di Eduardo De Filippo, uno dei suoi capolavori, che, come è noto, racconta del sogno di un presunto omicidio scambiato per realtà e capace di far emergere tutta una raggelante realtà di rancori e meschinità, di veri e propri “crimini del cuore”, anche all’interno della stessa famiglia.
Quella di sabato 23 e domenica 24 novembre era la prima esibizione congiunta dello storico Piccolo Teatro al Borgo di Mimmo Venditti e degli scalpitanti puledri dell’Arcoscenico di Luigi Sinacori. Ed è andata bene. Lo scorso anno i due gruppi avevano costituito una coppia di fatto, convivendo sullo stesso cartellone e unendo le energie nelle organizzazione. Una struttura alla pari, ma ancora in parte con la disposizione psicologica della chioccia vendittiana che fa crescere i pulcini sinacoriani, accogliendoli con sé e fornendo una stimolante apertura di credito. L’avere quest’anno riformato la “società”, per di più aggiungendo altri due spettacoli a quelli storici dei due gruppi e producendo due rappresentazioni edoardiane in comune (oltre a Le voci di dentro, Il Sindaco del Rione Sanità) è stato il segno che oramai la fiducia era stata ripagata, la coppia si è consolidata e si è giustamente pensato di “allargare la famiglia”, generando i due spettacoli insieme.
Mancava però la prova del fuoco, cioè il risultato pratico agli occhi del pubblico. E la prova del nove rispetto alla prova del fuoco è stata l’opinione diffusa che, se un esterno avesse visto lo spettacolo senza sapere nulla degli attori, non avrebbe certamente pensato che in quel momento si stava sperimentando la convivenza di due compagnie diverse. Merito anche del fatto che l’opera è stata già più volte rappresentata da Venditti (che ne è anche l’applaudito protagonista, insieme col col suo storico compagno di scena, Matteo Lambiase, una garanzia di qualità e di “professionalità”), quindi gli arcoscenici si sono inseriti in un contesto già consolidato, ma l’esito non sarebbe certo stato positivo se non ci fosse stato anche il talento primario dei vari Luigi Sinacori (un portinaio felicemente vivace e impiccione), Gianluca Pisapia (il giovane Cimmaruta, ben reso nella sua “fragile tostità”), Mariano Mastuccino (un rassicurante secondino) e compagnia bella (qui il termine è proprio il caso di usarlo…). Una compagnia bella composta anche da Daniela Picozzi e Raffaele Santoro (convincenti nei panni dei coniugi Cimmaruta, rabbiosamente rancorosi tra loro, travolti dalle delusioni di coppia e dalle spine di un lavoro ora mancante ora ambiguamente utile), Licia Castellano (la cameriera, colorita affabulatrice iniziale di un orrido sogno, che anticipa l’atmosfera della storia), Maria Spatuzzi (zia “saponatrice” adeguatamente “familiare” e misteriosa), Anna D’Ascoli (opportunamente disperata come dello sparito Amitrano), Raffaele Palazzo (malavitoso “Capa d’angelo” e buona presenza scenica), Attilio Lambiase (in due ruoli molto sensibili ma poco visibili, come quello di Zi’ Nicola e Aniello Amitrano), Enza Senatore (figlia smarrita e accusatrice).
Lo spettacolo è andato avanti a scorrimento veloce, con la giusta empatia sulla scena tra gli attori e dalla scena tra gli attori e il pubblico. Dalla nuova compagnia una e bina è venuta fuori anche la forza profonda del contenuto di quella che è una delle più belle e più profonde commedie eduardiane, dove si sente forte non solo l’eco di Pirandello, ma anche la personalità del grande commediografo napoletano. Ad esempio, se quella sospensione tra sogno e realtà e quel disvelamento dell’inferno familiare sono anche squisitamente pirandelliani, sono eduardiani l’umanità popolare e carnale dei personaggi e lo scioglimento finale della verità in discussione cioè l’apparizione reale di Amitrano.
Eduardo non si lascia mai incatenare dal relativismo assoluto pirandelliano: per lui non siamo uno, nessuno o centomila, ma anche “qualcuno”. Per lui può anche capitare che “è così se ti pare”, ma alla fine qualcosa appare. Ad esempio, se è “impossibile”, oltre le “quasi evidenti evidenze”, convincere i singoli Cimmaruta che il crimine non è stato commesso da uno di loro e che Alberto Saporito, il sognatore errante, non ha le prove del presunto omicidio, tuttavia alla fine anche loro, che su questa falsa credenza stavano quasi per costruire un vero omicidio (quello del testimone scomodo, Alberto) devono fare i conti con la realtà oggettiva: Aniello Amitrano è vivo e vegeto e non ha subito nessun attentato alla sua vita.
È pirandelliana e eduardiana l’idea che non ci sono buoni e cattivi, ma che ognuno ha il suo fardello di pena da gestire in quanto uomo. Eduardo però non vola nella metafisica dell’uomo in astratto, ma penetra nella triste realtà dell’uomo invischiato nella povertà di origine sociale e nelle meschinità di origine personale. Essendo anche la società “partorita” dall’uomo, Eduardo alla fine rivela un profondo pessimismo sul modo con cui vanno le cose, sull’incomunicabilità che approfondisce i solchi tra le persone e a volte genera guerre tra le quattro mura di casa.
È questo il retrogusto amaro che viene dall’intero dramma e dal pirandelliano “smascheramento” delle voci di dentro. Esso è incarnato dagli sputi e dal silenzio permanente e volontario del mitico “zi’ Nicola”, che, rinchiuso nel suo sgabuzzino, comunica solo con i fuochi artificiali, compreso dal solo Alberto Saporito, superstite bagliore di un’umanità perduta. È incarnato dalla gestione che il personaggio fa della situazione in tutto il terzo atto: una messa al muro delle responsabilità morali della famiglia Cimmaruta, disarmante groviglio di vipere, e di suo fratello Carlo, un Matteo Lambiase come al solito efficace nelle sue colorite recitazioni e qui capace di rendere bene la meschina e opportunistica ipocrisia del personaggio, che ha approfittato della situazione per vendere la roba di casa a suo vantaggio.
Ci ha convinto pienamente la resa teatrale organizzata da Venditti in questo raggelante finale. Diversamente che in altre messe in scena della stessa opera, qui egli, senza patetizzare lo smarrito dolore del fratello tradito e della persona innocentemente sotto tiro, con il suo consolidato mestiere e la sua artistica capacità di bucare la scena, ha ben evidenziato la consapevole rabbia verso le colpe e gli eccessi di un miserabile tessuto sociale che mette sotto cenere gli affetti e la lealtà. Conseguentemente, possiamo anche comprendere la piccola forzatura rispetto al testo nella scena finale. I due fratelli non rimangono immersi nel gelo che si è creato tra loro, ma Alberto trova la forza del perdono e dell’abbraccio. Un messaggio forte ed eticamente attuale, quello vendittiano, in questi nostri tempi fatti di muri più che di ponti.
Meritati allora gli applausi e i complimenti ricevuti alla fine da tutta la Compagnia Bella. Quasi il viatico per continuare ancora con convinzione ed entusiasmo.
E sabato e domenica prossima, 7 e 8 dicembre, si continua. In scena Un matrimonio in bianco, di Luigi Sinacori: con i puledri di Arcoscenico pronti per una nuova scalpitata in avanti. Il prossimo articolo sarà dedicato solo a loro: a questo prossimo spettacolo, a quello del debutto ed al loro personale bilancio di questo primo anno in coppia con Venditti.
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