CAVA DE’ TIRRENI (SA). Arcoscenico&risate in scena con la castità impura di “Matrimonio … in bianco!”

Un misto tra la farsa alla napoletana e la pochade alla francese, un divertissement allo stato puro, un piccolo ritorno alle origini rispetto ai salti drammatici di Hope e Jude dello scorso anno e alla recente sia pur leggera e arcoscenicamente vivace satira all’italiana di Un’eredità poco mancina sugli scontri e/o le forzate convivenze tra la destra e la sinistra politiche.

Ma proprio per questo non è stato meno impegnativo. Far ridere, lo sappiamo, non è certo più facile che scatenare emozioni dolorose, anzi. E ci è riuscita, a far ridere, la Compagnia Arcoscenico di Luigi Sinacori, con Matrimonio… in bianco!, scritta dallo stesso Sinacori, in scena il 7 e l’8 dicembre all’ex Seminario Vescovile, secondo spettacolo della Compagnia da sola nel cartellone congiunto con il Piccolo Teatro al Borgo di Mimmo Venditti, che ha già eduardianamente prodotto di suo la classicissima decembrina Natale in Casa Cupiello e, in matrimonio scenico per niente in bianco con gli stessi Arcoscenici, Le voci di dentro.

La vicenda racconta di un rapporto di coppia non consumato, prima a causa preservazione verginità e per altri motivi neppure dopo, in un matrimonio malvisto. Matrimonio in bianco quindi, per il vestito nuziale e in bianco per l’imene ancora intatta. E tutto sommato anche per una festa non consumata, per via dell’opposizione di una suocera petulante invadente e ben poco contenta del genero imbranato e pocofacente. Ma per il resto “si consuma”, e come!, tra amori adulterini, seduzioni a catena e acque chete imbordellate, sfociando il tutto in un albergo del libero scambio in stile Feydeau, gestito da uno scatenato Sinacori autoregista in scena, mezzo effeminato, mezzo allupato, mezzo furbacchione e molto doppiosensista, nel pieno della sua verve comico-trasformistica.

Quando si affrontano situazioni del genere, che riproducono, senza bisogno di attualizzarli, gli stereotipi del vecchio tetro delle maschere, gli attori devono saper entrare in sincronia con gli altri e mantenere costantemente i ritmi di battuta e all’occorrenza essere loro stessi delle maschere col volto umano. Per far questo conta molto il ruolo del Direttore d’orchestra, nel nostro caso il buon Luigi, che ha fatto cantare gli altri e per conto suo ha “cantato” e portato la croce, ma non certo da solo, anzi in buona compagnia, a cominciare dall’insopportabilità sferofragica della suocera Pina Ronca, come al solito bucascenico animale da teatro. Ma come non apprezzare il disinvolto, coinvolgente e anche un po’ “paraderetanico” imbambolamento di Gianluca Pisapia, sposo in bianco-nero, le ambiguità e le finte ingenuità della colorata (e ben intonata nel canto) sposa Mariella, Licia Castellano, il prezzemolismo discreto e pettegolo del portinaio Mariano Mastuccino, le buffe e forse ipocrite ostentazioni di castità di suora Francesca Cretella, il sepolcro imbiancato del sacerdote Federico Santucci, il divertente uccellofobico mutismo di Anna D’Ascoli, sorella del portinaio, miracolata da un’apparizione uccellifera, il nero vedovile e sexyfedifrago di Enrica Auriemma, moglie di un esagitato e impistolato capitano Luca Ferrante, dall’umore altrettanto nero e forse giustamente geloso e cornuto, il flash playboyco di Raimondo Adinolfi, montante fantino dal nome evocativo (Lanfranco Dettorini=Gianfrando Dettori dei tempi in cui tutta l’Italia si dava all’Ippica) gli intrighi provocanti di Anna Cortone D’Amore, cameriera tonterella in casa e spintarella fuori?

Con personaggi e situazioni del genere, teatralmente non è difficile perdere l’empatia con lo spettatore, la cui attenzione va tenuta sempre accesa dalla risata, dal sorriso e dalle preparazioni alle battute ed agli equivoci. E non è difficile neppure perderla perdendo la misura e i toni giusti. Da questo punto di vista, nonostante fisiologiche oscillazioni, l’Arco Scenico è rimasto ben saldo, e in evidente maturazione rispetto alla resa di scene analoghe ai suoi inizi. E i novanta minuti dei due atti sono scesi giù come una gazzosa fresca in un’estate calda, ottenendo un gratificante consenso da parte di un pubblico che giustamente sempre più numeroso, stavolta in sold out!, affolla la Sala dell’ex Seminario Vescovile, permanente e utilissimo surrogato del Teatro che non c’è.

Dopo questa parentesi, il 4 e 5 gennaio, il cartellone continua con un altro classico vendittiano, Mio marito aspetta un figlio, già messo in scena da altre compagnie in varie parti d’Italia. Intanto gli Arcoscenici si preparano ad un gennaio molto caldo, che li vedrà il 25 e 26 impegnati con Jude, la riedizione di un testo originale di Mariano Mastuccino collegato alla Shoah e alle Giornate della Memoria. Dal riso al pianto, insomma. Ma quando una compagnia ci riesce, allora non ci resta che sorridere …


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