Bergamo – Cava de’ Tirreni (SA). “Il senso vero della neve” di Antonio Donadio: un’agrodolce elegia della vita, dell’amore, del tempo.
È con amicale magone che ci accingiamo a presentare “Il senso vero della neve” (Ed. Morcelliana), l’ultima prova poetica del nostro Antonio Donadio, poeta e scrittore cavese di risonanza nazionale, che è residente a Bergamo e quindi si trova, tra attoniti silenzi, nella prima linea di fuoco, in questa straniante Prima Guerra Mondiale antivirus. Anche lui, come tutti noi, in attesa che torni agli occhi meraviglia ancora / al ritmo di ritrovate nenie cantate.
Avremmo dovuto parlarne preannunciando il suo arrivo per una presentazione qui “in patria”, che invece oggi è solo un sogno. Non mancherà, lo sappiamo, ma… quando del Dopoguerra? Risposta non c’è, ma forse ci sarà… Per ora è scritta nel vento, anzi è sepolta sotto la neve, dove comunque si trova in buona compagnia con lo spirito lirico del nostro Donadio, che vi ha ambientato metaforicamente tutta la sua costruzione poetica e la sua concezione dell’esistenza.
Materialmente, la “sua” neve per eccellenza è quella famosa del ’56, che segnò di bianco la memoria profonda della nostra generazione e che per lui è lo spunto memoriale dei giochi che al tempo fece coi fratello nei lunghi giorni di quella nevicata.
Ma… dove alberga la neve è lì che si indovina / il certo senso della luce. Forse….
La vera neve per il suo animo poetico è l’inafferrabilità del tempo, il tempo stesso, dove sei stretto / da ritmi impassibili del dare / e dell’avere, è la friabilità fredda ma suggestivamente protettiva della parola creatrice di ombre come giochi di mani, espressione della nostra svaporante essenza esistenziale. Questa essenza egli la scompone in quindici tematiche, unite e diverse tra loro, trattandole in due sezioni parallele e convergenti. E, per dirla con il gratificante complimento del grande Giorgio Barberi Squarotti, ne nasce un insieme veramente fascinoso di “ardue e raffinatissime poesie d’amore e di stagioni e sogni e visioni con metrica originalissima”.
Nella prima sezione, “Paesaggio con figura”, Donadio trasmette il pensiero poetante dell’io scrivente con poesie brevi numerate, con un ritmo composto, piano e per certi versi “circolare”. Con gli stessi numeri nel titolo, nella seconda parte, Aritmie d’orme, egli tratta, analogicamente, le corrispondenti tematiche, ma con una metrica e addirittura con fruizioni grafiche non regolari, spezzettate, ad esprimere la frammentazione dell’io a contatto con l’altro da sé, ma anche l’elastico che lega comunque il nostro io alla manifestazione verso l’esterno, e forse anche viceversa.
Ad esempio, al n.2 della prima parte il verso intero le rincorse fughe d’amore trova riscontro nell’improvviso emistichio finale del n. 2 della seconda parte, mi manchi; e l’enjambement in solidale / corrispondenza del n.1 si materializza, nell’altro n.1, con la “presenza altra” in sere indovine, ma solo sull’uscio e per di più in forme interrogative; le essiccate memorie del n. 12 vengono personalizzate dall’enjambement del corrispondente n. 12 delle Aritmie, forse un dio / si smarrì per strada… e così via.
Il disordine metrico è perciò mera apparenza letteraria, perché non intacca l’essenza del contenuto ed è frutto di una varietà metrica ricercata, controllata e come al solito limata, a cominciare dai frequentissimi enjambement, raffinato legame tra le due parti e simbolo delle “sospese sospensioni” tipiche di Donadio.
Così quello che è simile diventa grazie alla forma altro, ma conservando le analogie nella sostanza. È un processo visionario, che ha alla base, come dice Donadio stesso, la montaliana indecifrabilità del vivere. Per rappresentare questa indecifrabilità, Donadio usa la sua consueta poetica pregnante e carica di intriganti luci dell’anima e fascinose scintille di emozione e di mistero.
Sarebbe facile e riduttivo definirla ermetica, solo perché non si spiattella apertamente il contenuto, ma piuttosto va letta e riletta, percorsa e ripercorsa, e vi si scoprirà, oltre alla maestria della parola, un prezioso distillato di umana ricchezza esistenziale ed emozionale, oscillante, per dirla con l’amato Luzi, tra la vita al quadrato dell’amore e la testimonianza di un vuoto, poggiando il tutto su fondamenti invisibili.
Ed ecco che torniamo alla friabilità non nichilistica ma positiva della neve di Donadio, qui espressa nella bellissima simbologia delle Orme di copertina, dipinte da Alfonso Vitale, in un cammino che dal nero delle tracce in movimento si sublima dolcemente negli svolazzi colorati delle stesse orme immerse nel biancore del turbine.
In questa neve, smossa e rimossa dal “vento” donadiano, volano materia e tempo, materia e senso, si disperdono nel sollevamento verso l’oltre, ma intanto si innalzano sulla materia in quanto tale e si impregnano di tensione amorosa congiunta ad un “doloroso amore della vita” nella coscienza della sua fragilità nell’immensità del tempo. In questo processo, si agita l’anima del poeta Donadio con le sue abituali e dichiarate contraddizioni, liricamente espresse con personali ossimori e citazioni dei “grandi”, da Gozzano a Leopardi, da Archiloco a Montale: agghiaccianti solarità, dolci tristezze, essiccate primavere, luce che stritola e ammanta, gioiosità di ferite nascoste, detestate vecchiezze, il darsi come attesa incessante senza prendersi mai,femmine di luce e campi di promesse spighe, solarità del niente, notti d’inverno e assolate vie… e così via.
È un viaggio nella parola ma soprattutto un’esplorazione nella caverna dell’anima con il lumicino della poesia, che nell’assolutamente poco che ostinatamente chiamiamo vita riesce a donare la capacità di dividere passi leggeri nel vento, spinti dalla solitudine naturale dell’essere umano ma anche dal vagheggiamento di quella realtà vissuta che ostinatamente chiamiamo amore.
In ogni caso rimane lo spiffero di quell’angolino che, ricercandolo senza posa al di là delle sue memorie e dei suoi affetti familiari più stretti, suo tempo quotidiano e sogno, Donadio riserva a se stesso, che contempli da solo il paesaggio della vita o che entri a contatto con le sue figure. È uno specchio di tagliente morbidezza, di fronte al quale avviene il suo dialogo più necessario e irrinunciabile, quello, per dirla con il grande Caproni, in cui il suo io egli non vuole murarlo nel silenzio sordo / d’un frastuono senz’ombra / d’anima.
Ed è proprio qui che l’anima aperta e sfuggente di Donadio, uomo di solitaria socialità, si incrocia con quello di noi tutti. È qui che si genera la rigenerazione delle orme, per poter volare tra la neve e nel vento, è qui che si semina il germe di quella vita al quadrato che è l’Amore…
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