CAVA DE’ TIRRENI (SA) – Genzano (RM). Fiorello Doglia, il poeta della pandemia e delle parole scolpite

Fiorello Doglia, poeta e scultore di Genzano (Roma). Abbiamo avuto il piacere di conoscerne il fascino artistico e lo spirito creativo e costruttivo in occasione delle ultime manifestazioni dell’Accademia Arte e Cultura di Michelangelo Angrisani, dove egli è stato pluriesposto e pluripremiato come poeta e come scultore. Con lo stesso piacere, abbiamo accolto la sua più recente pubblicazione, Un autunno, un inverno, e ci accingiamo a parlarne, perché le sue opere sono sempre un bagno di sensibilità, fantasia, emozione e umanità.


Grandinano parole, nelle poesie di Fiorello Doglia. Parole ungarettianamente scavate nell’abisso, ma nello stesso tempo pesanti come pietre. Ognuna col suo peso, nessuna leggera, tutte miranti alla leggerezza perduta e sperduta. Parole che solo apparentemente piovono dalla realtà contingente, ma di fatto sono meteoriti d’immenso, che bruciano, guaiscono, guariscono, cauterizzano le ferite.

La sua ultima raccolta, la quinta, sia nel titolo sia nelle immagini di copertina (due belle sculture da lui stesso realizzate, rappresentanti il bisogno di Oblìo e il sogno della Rinascita) richiama la lunga e defatigante odissea che l’umanità sta affrontando con le quattro stagioni della pandemia. Si pone come ideale continuità rispetto alla raccolta precedente, Pan-de-mi-a, che con accenti più o meno simili cantava la primavera del coronavirus e delle clausure. Se però quella primaverile era figlia del dolore e madre di speranza, carica di lampi di improvvisa coscienza, questa stagione invernale (esaltata dalla serie di incipit “viene l’inverno” e tremante all’idea di un oggi senza domani) è piuttosto una defatigante maratona di soffocati respiri disperati alla speranza, ma mai alieni da quel cocktail di pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà che nasce dalla coscienza di potere e dover resistere (respiro: tutto il resto lotta!).

In entrambe le raccolte, la dimensione pandemica è solo un punto di partenza.

Come altrove, egli parte da quello che succede per riflettere su quello che i cinque sensi del suo sguardo colgono o percepiscono. Ben oltre la superficie, ben oltre le mascherine, che coprono di ulteriori maschere esseri umani inscemiti dalle apparenze. Proprio queste apparenze sono scardinate dalla grandine di parole che spezza la crosta di inconsapevolezza che copre la nostra coscienza del vivere.

Da poesia della storia i suoi versi si trasformano nel canto dell’esistenza, guizzante favilla lampo scintilla. È un viaggio verso se stesso e verso l’uomo realizzato attraverso un’arte viva visionaria farneticante meditabonda solitaria erratica. Che sia il canto dell’esistenza è dimostrato dalla pioggia di amore e dolore che egli inietta nella sua grandine: è l’alternanza che ognuno di noi assapora nel lungo lampo della vita. Così, la falce di luna vola tra acque teneramente silenti e un graffio crudele e noi col poeta voliamo dall’alto della carezza più pura del mare alla riva danzante fino a ricadere, trascinati da lacrime come lapilli eruttati al cielo, in un’alternanza defatigante tra purezza e putridume. E rimaniamo laceri di ferite e di domande, pronti a provare e riprovare progetti fandonia su spoglie inerti, inutili, illuse, ma coscienti di non poter rinunciare al dono immenso dell’immenso, perché ognuno di noi finisce col sentirsi sperduto ma mai perduto, pronto comunque a distillare amore dall’amaro agire.

Le espressioni appena tracciate sono rubate qua e là tra le poesie e accorpate in versi unitari lì dove nel testo sono scritte in versi spesso monoverbali, dove il poeta si rivela lirico direttore di un’orchestra di parole, assonanze, consonanze, chiasmi, anafore, metafore… La forma non è però fine a se stessa, bensì congruente con la sostanza. Egli, pur frantumando il suo mondo emozionale in un bollente big bang di pietrosi frammenti, non perde mai né il controllo né le tracce del suo essere primario. Per questo è in grado non solo di ricomporre la grandine di parole in un blocco unico pur se disomogeneo, ma anche di offrire al lettore la possibilità di vivere con lui tutto il percorso di uno scoppio dell’anima che sa ricomporsi e ricomporre pur nella sua scomposizione.

Questo succede perché il poeta ha il cuore in magmatica ebollizione, ma non perde mai la mano ferma della ragione e non la fa perdere al lettore, che infatti riesce a seguirlo, anche concettualmente, nel succedersi “visionario” dei suoi frammenti e nei suoi messaggi. Non a caso egli, artista per passione, è agopuntore di professione, vale a dire un maestro del ricomporre equilibri all’interno degli squilibri. Non a caso egli, scultore di parole, è anche poeta della scultura, autore di opere che ricompongono in forme liriche ma ben riconoscibili tutto il doloroso groviglio dell’essere e della storia.

Perciò egli si può permettere di farci rotolare tra le scintille, perché sa che è la strada per farci toccare la radice del fuoco, quello più profondo, quindi di vivere, o rivivere finalmente il tempo-tempio della poesia del dire e del vivere vero.

È questa l’anima più concreta ed emozionante del suo percorso poetico, che gli permette di essere spettatore-attore di un’umanità in cerca di umanità. Egli ne vive dentro tutti gli smarrimenti, ma sa anche distaccarsene in astrale come un gatto sornione indeciso se piangere o ridere a vedere lo spettacolo di tanti levrieri che corrono verso il nulla per afferrare la polvere di niente.

In questo distacco, egli, pur con assorte parole stormite appena, riesce ad intravedere la strada del viaggio verso se stesso e verso se stessi. Si aggrappa alla bellezza struggente e sfuggente del mare di settembre, prende coscienza che ciò che è è e ciò che c’è è, decide, e implicitamente invita a decidere, di cogliere, migliorare, abbracciare, amare, condividere. E parte verso l’obiettivo più affascinante, che solo l’intenso dell’immenso può donare: rubare la meraviglia che siamo.

E la speranza di questo furto ci ridona tutta la carezza dell’energia…


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