Roma – Cava de’ Tirreni (SA). Monologhi teatrali nel nome di Settimia, reduce da Auschwitz e cittadina onoraria di Cava
La premiazione del concorso, giunto all’ottava edizione, si è svolta a Roma il 15 febbraio.
“Il significato del Premio “Settimia Spizzichino e gli anni rubati”, giunto ormai alla sua ottava edizione, è di ricordare che cosa è stata la deportazione e lo si fa attraverso una forma d’arte teatrale. Con un monologo e pochi oggetti di scena, l’attore o l’attrice si pongono al pubblico con una storia. Sono tanti piccoli monologhi che riescono ad emozionare il pubblico, arrivando dritti ai loro cuori.
Il mio ruolo all’interno del Premio è quello di Giuria Storica e familiare. Ad affiancarmi prima c’era mia zia Carla Di Veroli e tutto questo è nato proprio grazie a lei e al direttore artistico Sasà Russo. La Giuria Storica non ha competenze tecniche o artistiche, che riguardano invece la Giuria teatrale, ma verifica la coerenza, anche emozionale, col vissuto ed è composta dai familiari di Settimia Spizzichino, in qualche caso integrata da esponenti della Comunità Ebraica”
A spiegarci la natura e gli obiettivi del Premio “Settimia Spizzichino e gli anni rubati”, è Miriam Spizzichino, pronipote di Settimia, testimone diretta della Shoah, unica donna sopravvissuta ai lager tra i 1022 romani deportati dal ghetto il 16 ottobre 1943.
L’occasione è stata offerta dalla cerimonia di premiazione, svoltasi il 15 febbraio scorso al Teatro Antigone di Roma, alla quale però sfortunatamente non ha potuto presenziare causa Covid, ma era presente in spirito, in lettera di saluto ed in evocazione da parte del conduttore Sasà Russo. Così, come, con accenti commossi, è stata “reincorporata in sala” la figura e la persona di Carla Di Veroli, recentemente e precocemente scomparsa, nipote di Settimia e custode della sua memoria e fondatrice del premio, oltre che combattiva e ardente paladina della libertà, dei diritti e della dignità umana. In suo onore è stato introdotto il Premio Speciale della Giuria, che per l’occasione è stato consegnato al vincitore dal figlio Jonathan Limentani, venuto apposta da Israele, dove attualmente vive.
La serata finale, che ha previsto come sempre l’esecuzione dei sei monologhi finalisti, scelti tra oltre quattrocento e uno più coinvolgente dell’altro, è stata fluida, vivace, intensa, corposamente ricca di emozioni, e di stimoli culturali, storici e umani. Guidata con passione e ironia dal “presentattore” Sasà Russo, si è conclusa con la gioiosa consegna dei premi.
Si sono spartiti la parte del leone due monologhi: Il canto della cicala (primo premio assoluto “Settimia Spizzichino”, miglior attore, miglior testo) e Greta Hoffman (Gran premio speciale della Giuria “Carla di Veroli”, miglior attrice, miglior regia). È stata a nostro parere una spartizione buona e giusta, perché entrambi i lavori hanno letteralmente conquistato il pubblico in quei brevi ma intensissimi dieci minuti concessi ad ogni monologo.
Spiazzante, tenero, straziante, “Il canto della cicala” racconta con discrezione e incisività l’orrore della Shoah dall’angolazione di una cicala, che si rivolge direttamente ad un bambino deportato di cui si sente “amica”. Sono due fragili esserini dalle vite brevi: naturale per l’una, violentemente innaturale per l’altro, travolto dallo tsunami della crudeltà estrema. La dolcezza del feeling ideale tra la cicala e il bambino esprime la poesia bella e luminosa della vita, in contrasto con la quale si svela ancora più tetro e cupo il buio della violenza. Con un’idea del genere, era facile cadere nella retorica, ma questo non è avvenuto, sia per la letteraria e ammirevole leggerezza che caratterizza il testo di Elena Pelliccioni sia per la bravura dell’attore, Alessio Braconi, che ha sempre mantenuto pacati i toni riuscendo a trasmettere profonde emozioni attraverso leggere vibrazioni della voce e il colore dato alle parole.
Altrettanto feeling con il pubblico ha riscontrato il monologo Greta Hoffmann, di Giancarlo Moretti, recitato dalla bravissima Patrizia Bellucci con partecipata emozione e composta maestria attoriale. Anche qui non era facile conservare la misura, non essendoci neppure il varco della dimensione fantastica e dell’immaginazione. Sa di lacrime e di sangue la situazione della donna che dopo la perdita del marito in guerra si trova a combattere con i figli piccoli e con la mancanza di lavoro. Lo trova, il lavoro, e ne è felice. Deve tessere con dei fili che le vengono dati dalla direzione. Maneggiandoli, come se parlassero, sente da quei fili una strana percezione di dolore, fino a quando non prende coscienza che quelli sono capelli umani, che vengono dai campi di prigionia. Ed è una morsa che l’afferra fino al profondo del cuore, da cui però non può fuggire. È una progressione di emozioni che il testo e la recitazione riescono a trasmettere con un’empatia a battito di cuore. E quell’abbraccio con cui la mamma alla fine stringe i figli è carico di tutto l’amore, il dolore e l’impotenza che ognuno di noi prova di fronte alle violenze causate dall’uomo sull’uomo. E ne sappiamo qualcosa in questi giorni…
Pur se non hanno conquistati i podi più alti, gli altri monologhi non hanno certo sfigurato. Anzi, hanno colto pienamente nel segno anche loro, ognuno con la sua specificità.
Tutto questo silenzio, di e con Gabriele Zedde, è penetrato nelle ferite profonde della psiche attraverso un lacerante sdoppiamento di personalità nell’esercizio di una memoria “sanguinante”.
L’angelo del focolare, di Andrea Frediani, diretto da Laura Jacobini e interpretato da Donatella Esquino, con spiazzante provocazione, presenta una mamma imbevuta di retorica nazista che non si spaventa, anzi si inorgoglisce, davanti al volto inzaccherato di sangue del figlio adolescente, reduce dalla sua prima esecuzione nel campo: per lei è la prova che sta diventando “uomo”. Ma il suo atteggiamento genererà orrore anche nel suo compagno, un soldato nazista…
Una giornata buona, di Andrea Casanova Moroni, mette a fuoco il devastante tormento delle ore e dei minuti della giornata di un deportato, in cui anche un male minore può dare il senso di una giornata buona.
“27 gennaio 1980”, di Fabio Rosato con Valeria De Vito, è la rivisitazione dell’esperienza del lager da parte di una ex deportata attraverso la memoria e il suo diario, nell’anniversario di una particolare “ri-nascita”.Come ha detto poi Jonathan Limentani, tante parole e percezioni di quel monologo facevano pensare ai pensieri e alle parole della zia.
La figura di Settimia, anche quando non era direttamente richiamata, aleggiava in permanenza nella sala del Teatro Antigone. Settimia è stata una delle voci più vive e pungenti della Shoah, una grande guerriera della memoria, che fin dal primo giorno del ritorno a casa ha gridato al mondo la sua rabbia e testimoniato l’orrore dei suoi anni rubati, perché il mondo sapesse, imparasse e non dimenticasse. A decine i suoi viaggi ad Auschwitz per accompagnare e raccontare, a centinaia le sue testimonianze nelle scuole, in incontri pubblici, sui media.
E quanti ricordi, e che scia e che valori ha lasciato pur avendoci lasciati! A lei sono dedicati a Roma un istituto scolastico, un francobollo nazionale e il ponte più moderno sul Tevere. La memoria visiva della sua esperienza è contenuta nel film monografico “Nata due volte”, realizzato da Giandomenico Curi. La sua testimonianza diretta si trova nel volume “Gli anni rubati” (da cui il nome del Premio) e pubblicato in tre edizioni dal Comune di Cava de’ Tirreni, città di cui lei è cittadina onoraria, che le ha intitolato una strada e quando può continua a testimoniarne la memoria.. Il ricordo più dettagliato dei suoi ritorni al lager è in “Cioccolato ad Auschwitz”, diario romanzato di un viaggio fatto da studenti e cittadini di Cava de’ Tirreni con lei ed altri romani, reduci o familiari. A Cava, era diventata “di casa” e qui, nelle persone che l’hanno conosciuta da vicino, ha lasciato una scia profonda di amicizia, di affetto e di ricordi che dura e durerà nel tempo.
E poi, naturalmente, c’è il Premio Settimia Spizzichino e gli anni rubati: che è un memoriale della figura di Settimia, è un ponte della memoria che attraversa le generazioni. Ben pochi tra i partecipanti al concorso avevano conosciuto Settimia o gli altri reduci. Eppure hanno fatto i conti con la loro testimonianza e con le loro “lezioni”.
Per tutto questo, il Premio “Settimia Spizzichino e gli anni rubati” non è un premio qualsiasi, ma un premio necessario. Almeno per gridare e continuare a gridare fino allo sfinimento contro tutti gli anni rubati di ieri, di oggi e di domani.
E sarebbe ben felice il giorno in cui si smettesse di gridare perché non ci sono più anni rubati … ma purtroppo la madre dei ladri di vita è sempre incinta …
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