Mimì Apicella e Tommaso Avagliano: l’antico ”duellar” in versi
Domenico Apicella e Tommaso Avagliano. Due cavesi molto noti: il primo, il mai dimenticato avvocato, direttore de’ “Il Castello”, il secondo, ex docente di Lettere alle Scuole Medie, oggi brillante editore assieme al figlio Sante. Cosa unisce i due? Un genere di poesia molto particolare: la “poesia giambica” caratterizzata dal tono canzonatorio con versi che oscillano tra il faceto, l’ironico e il polemico fino a rasentare l’ingiuria. E’ il 1964 e il giovane ventiquattrenne Tommaso Avagliano, allora laureando in lettere, pubblica un libro di poesie che si divide in due parti : Poesie a Lil. e altri versi – Doce doce, la prima parte reca il suo nome, la seconda lo pseudonimo Masoagro. Tralascio la prima parte “lirica” (promettendomi di ritornare in altra occasione su queste e altre poesie di Avagliano) e vengo a Doce doce. L’autore nella nota introduttiva sottolinea che l’altro da sé, Masoagro: “è convinto che un uomo non deve aver paura di dire ciò che pensa: altrimenti non si sentirà mai in pace con se stesso. Così sono nati gli epigrammi di “Doce doce” e in conclusione “ chi si sentisse bruciacchiare la coda da una delle sue scoppiettanti composizioni, se la prenda con Masoagro. Io, per me, me ne lavo le mani.”
La Donna e l’arte
Scrisse Apicella un dì
da qualche parte:
“ Come la Donna è l’Arte,
proprio così:
a chi sa prenderla si dà
con gran facilità”.
Povero don Mimì,
questo dunque è il motivo
per cui con odio vivo
maledice la Donna
e di tutto l’accusa:
d’alzare un po’ la gonna
ad una bella Musa
non fu, e mi dispiace,
non sarà mai capace!
Non c’è da aggiungere alcun commento: è tutto molto chiaro. Avagliano “sfotteva” l’avvocato Apicella, (per tutti era confidenzialmente Don Mimì), per presunte scarse capacità seduttive. In verità Avagliano nello stesso libro si sofferma anche su un’altra “qualità” che attribuisce all’Avvocato: la “pirchiaria”
Da tant’anne, don Mimì,
capetuosto a nun fenì,
tene ancora (e ce cammina)
na scassona ‘e Topolino …
– Capetuosto? Auh figliu mio,
chillo è ‘o rre d’ ‘a pirchiaria!
In La Donna e l’arte Avagliano si riferiva ad una poesia apparsa in un libro di Apicella: “Il mio cuore vagabondo”. Libro che in una 2a edizione di quasi vent’anni dopo, nel 1982, contiene la seguente risposta, ovviamente in versi:
Quando lo scrissi , caro Tommasino,
non dell’arte parlai, ma di fortuna.
Per quel che resta, dirvi poi conviene
che un filosofo antico lasciò scritto
essere l’uomo misura di tutto:
dimenticò, però, di dire ancora
che ognun si pensa gli altri a sua misura!
L’avvocato Apicella facendo riferimento al sofista Protagora, rimanda l’offesa al mittente: è lui che non è capace “d’alzare un po’ la gonna /ad una bella Musa”. Sorrido a queste reciproche “accuse” per sottolineare che tutto ciò è splendido. Un ricorrersi in un dolce amaro duello in versi e per così tanti anni. Sono versi molto semplici, con rime irregolari dettate dalla necessità del dire. Del dare spazio all’invettiva che diviene il “motivo del canto”. Testimonianza di un vivere “dell’altro ieri” quando la realtà, quella vera, scandita dai passi, dalle voci, dai colori, dalle emozioni, dai turbamenti trovava asilo sotto gli amati portici. Pagine da sottrarre all’oblio. Recupero memoriale di tasselli certamente minimi, ma che hanno la forza di storicizzare la vita di un piccola città come la nostra. Ciò che ieri trovava intelligente e divertente “duello in veste giambica”, oggi, ahimé, indossa abiti postribolari e trova compiacente ospitalità in mille agorà massmediatiche.
Commenti non possibili