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Anacleto Postiglione, la saggezza dei classici e il sorriso dell’intelligenza

Un ricordo del noto docente, scomparso il 16 ottobre, poco prima della moglie Anna.


anacleto-postiglione-salerno-vivimediaSALERNO. Un dolcissimo mito dell’antica Grecia racconta che un giorno Giove e Mercurio, per mettere alla prova gli esseri umani, scesero sulla Terra sotto le mentite spoglie di due viandanti che chiedevano ospitalità. Furono accolti con gentilezza e piena disponibilità solo da due vecchi coniugi, Filemone e Bauci. Il giorno dopo, dichiarando la loro identità, offrirono ai due una ricompensa a scelta. E loro chiesero solo la grazia di morire insieme. Qualche tempo dopo, mentre erano vicino al focolare, lentamente si trasformarono in una quercia e in un tiglio uniti per il tronco…

Il mito è divenuto realtà per il professore Anacleto Postiglione, scomparso a Salerno il 16 ottobre scorso all’età di ottantotto anni, e per sua moglie Anna, spirata la notte successiva, a Firenze, dove era ricoverata da tempo. Dopo oltre cinquant’anni di matrimonio e la formazione di una bella e numerosa famiglia, quando erano ridotti ormai ad un’ala sola, sono volati via abbracciati. E forse il dolore di familiari e amici per la perdita, perché non ci sono più, è stato, per citare quel Sant’Agostino tanto amato dal professore, ammorbidito dal sorriso per quello che c’è stato, da quel lontano 5 dicembre anni Sessanta fino all’ultimo, comune respiro.

La scomparsa di Anacleto Postiglione ha scatenato un’onda lunga di emozione e di ricordi nei tanti colleghi e amici, che gli volevano bene come uomo e lo stimavano come docente “stellare” di Latino e Greco, come conferenziere di alto profilo, come appassionatissimo cultore dei classici, come saggista sagace, autore tra l’altro di un magnifico viaggio letterario nel rapporto tra gli scrittori latini e la schiavitù.

La stessa onda lunga di emozione e ricordi ha invaso e pervaso anche il ben nutrito esercito di studenti che da lui sono stati abbeverati di cultura umanistica e di apertura mentale nel corso della sua lunga carriera, in particolare presso il Liceo “Marco Galdi” di Cava de’ Tirreni e il Liceo “Tasso” di Salerno. Studenti che hanno goduto del suo saper essere non solo un gran professore, ma anche più che un semplice professore: parafrasando Catone, un vir bonus docendi peritus (un uomo di qualità esperto nell’insegnare), un maestro ascoltato, stimato ed amato, nella cattedra e nella vita.
La sua venuta nella aule fu una ventata di aria fresca, in quegli anni Sessanta in cui si sentiva il bisogno di creare varchi in una scuola ancora troppo severa e accademica e poco attenta al possibile “volto umano”. Pur senza nessun compromesso rispetto alla qualità ed al rigore dello studio, Anacleto Postiglione riuscì a guadagnarsi uno spazio luminoso di affetto e di stima, perché era chiaro nelle spiegazioni e nella comunicazione, sapeva coinvolgere con la passione personale e con il sorriso dell’intelligenza, riusciva a far amare il mondo dei classici, sapeva stimolare sia con le aperture culturali di grande portata, sia con vivaci ammiccamenti e perfino con maliziose complicità. Insomma, si proponeva come una persona nella sua totalità, umanissimi difetti compresi.. e compreso anche il suo dichiarato elastico “tra il pane e salame e le finezze della musica di Mozart e Beethoven”.

E come tale sapeva emozionarsi, emozionare, farsi conoscere, far crescere.

Anche per questo, quando una decina di anni fa è tornato a Cava per una lectio magistralis su Sant’Agostino e le donne, c’è stata una mobilitazione piena di fermento tra noi ex alunni del Galdi. In quell’aula magna del “suo” liceo, oltre alle sue parole come sempre sostanziose e profonde, si scorgevano nei sorrisi a luce piena di tutti noi l’emozione di una gioiosa rimpatriata, la soddisfazione di ritrovare ancora una volta, in cattedra, un docente veramente speciale, e nello stesso tempo il piacere pervasivo di abbandonarsi a memorie, nostalgie, fremiti esistenziali lunghi una vita, a rivangare mille episodi di gioventù e di “scuola viva”.

Accanto a questo ricordo collettivo, mi è dolce evocare anche fattori personali, a cominciare dai suoi stimoli “pigmalionici” e dall’amore per il mondo classico che lui mi seppe trasmettere e che è stato decisivo per tante scelte professionali… E poi, quegli indimenticabili venti giorni in cui, non ancora laureato, ebbi l’onore di essere suo supplente nel nostro liceo e nella nostra sezione B…. Fu onore, ma anche dolore, perché erano i giorni terribili della malattia del piccolo Pierpaolo, nel suo lungo viaggio verso la notte che tanta notte fece scendere, e forse rimanere, anche nel cuore di Anacleto.

E che dire dell’emozione del giorno del mio pensionamento? Quell’11 giugno del 2011, in una reciprocità spontanea ed emozionante, lui mi mandò attraverso la figlia Daniela, allora mia collega, una copia della bellissima poesia “Itaca” di Kavafis, e io, sapendo che lui sarebbe andato dopo due mesi ad Auschwitz, consegnai per lui a Daniela una copia del mio “Cioccolato ad Auschwitz”, con tutto il calore di un pensiero affettuoso e grato al mio carissimo mentore.

Né posso tralasciare il dispiacere dell’ultima primavera, quando, presentando il bel romanzo del genero Claudio Grattacaso e informandomi da lui sulla salute di Anacleto, seppi che purtroppo anche lui forse aveva imboccato il lungo viaggio verso la notte.

Eppure, anche allora, mi venne in aiuto la sempre meravigliosa lezione esistenziale ricevuta dalla classicità, in particolare dal “suo” Seneca, dal “nostro” Seneca, che ricordava come sia una giusta conquista diventare amico di se stesso e da se stesso aprirsi agli altri, riconoscere la dignità in tutti gli esseri umani, anche e soprattutto negli ultimi (“respirano la nostra stessa aria e stanno sotto lo stesso cielo”), saper affrontare il dolore come parte della vita, perché “o finisce o ti finisce”, capire che più che la durata sono importanti la qualità del vivere e i momenti veramente vissuti. E ho pensato che lui ha saputo essere tutto questo, ho pensato all’abbondanza e alla ricchezza della sua semina: e forse ci avrà pensato anche lui, pur nel tormento degli ultimi tempi. Forse anche lui, come Neruda, ha potuto dire “Confesso che ho vissuto”.

E quel suo vivere ha comunque lasciato una scia che profuma oltre la sua vita. E che lo fa vivere ancora.

Grazie, Anacleto. E ti sia lieve la terra …