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Franco Bruno Vitolo | 13 Dicembre, 2018
“Costretti a fare Miseria e Nobiltà”: la stagione del Piccolo Teatro al Borgo è iniziata con una brillante contaminazione da Scarpetta
CAVA DE’ TIRRENI (SA). C’è chi, con un brillante neologismo anglicheggiante e assonante con renaissance-rinascita, l’ha chiamata greynaissance, cioé rinascita del grigio, dell’età in grigio, quindi della terza età. A dire la verità, il termine si adatta oggi di più alle donne, che ad un certo punto, per circostanze ora liete ora difficili della loro vita, si trovano a vivere non per qualcuno o per qualcosa, ma per dimostrare se stesse ed essere se stesse. Gli uomini, soprattutto in passato, erano da sempre abituati ad essere in prima fila fin dai tempi infantili delle “coccole da figlio maschio”.
Oggi il termine assume un valore più ampio, magari riferito alla pensione oppure a quell’età in cui si può essere più facilmente liberi di liberarsi o di “togliersi gli sfizi”.
Mimmo Venditti appartiene in parte a questa categoria. Non è cambiata certo la sua identità: in scena da sempre, sul palco e a volte non solo sul palco. Eppure tante volte bisognava e bisogna anche scendere a piccoli e grandi compromessi col pubblico, che per lui è sempre stato un interlocutore privilegiato. Segnali di piccole trasgressioni ogni tanto ne ha lanciati, comunque: la contaminazione de Il medico dei pazzi, la commedia non tradizionale di Santanelli, la cornicetta socialeggiante del Viviani di Fatto di cronaca…
Negli ultimi tempi però si è tolto qualche sfizio in più. Prima la formazione della strana coppia in cartellone con i ragazzi di Arcoscenico (della serie “voialtri volete procedere svincoli e sparpagliati? E io non ci sto!”) e adesso, nell’ambito della Rassegna teatrale 2018-19 del Piccolo Teatro al Borgo di Cava de’ Tirreni da lui diretto, la “vendittizzazione” di un superclassico come Miseria e nobiltà, commedia scarpettiana scolpita nell’immaginario popolare soprattutto nella resa cinematografica del grande Totò, più che in quella teatrale di Scarpetta o dello “scarpettiano” Eduardo.
Il titolo, Costretti a fare Miseria e nobiltà, già induce il pensiero alla contaminazione, con la curiosità di capire il perché della costrizione. E c’è subito un doppio d’ambiguità. “Costretti” nella vita reale, perché è stato espressamente richiesto alla compagnia del Piccolo Teatro al Borgo di rifare l’esperimento, a suo tempo di grande successo, de “La vera storia del medico dei pazzi”, con un prologo esterno che introduceva il famoso testo scarpettiano, comunque rispettato nella sua sostanza. “Costretti” nella finzione teatrale, perché la compagnia protagonista dello spettacolo, per poter recitare e di conseguenza mangiare, deve subire la prepotenza di un assessore interessato a far dare una parte alla bella Gemma, sua “raccomandata” diletta, o di letto che dir si voglia.
E qui il doppio esplode, soprattutto nel primo atto, diretto e condotto con un ritmo galoppante, da apllausi. La vita reale del gruppo recitante si mescola con la finzione delle prove e della miseria che deve emergere. Mimmo Venditti si è veramente divertito a rimescolare le carte, facendo e non facendo “Miseria e nobiltà”, in un gioco di intrecci nella sceneggiatura che è una vera goduria per teatrofili. Ad esempio, le battute sulla fame sofferta dai protagonisti del teatro vengono trasferite al gruppo recitante, che la fame la soffre veramente, al punto da non avere neppure la possibilità di procurarsi gli spaghetti veri per la famosa scena del finale del primo atto. E così anche la vendita del paltò, con la serie dei famosi “desisti”, che diventa un duetto per i big Mimmo Venditti e Matteo Lambiase nel loro ruolo di guitti (la classe non è acqua…) e non in quello degli sgarrupati disoccupati del testo. E il tormentone “bellezza mia…” del marchesino Eugenio (l’attor giovane Marco Coglianese) si trasforma nell’intercalare del vero spasimante della ragazza che interpreta Pupella (Titta Trezza), ricco ma impossibilitato a usare le sue ricchezze. E che dire della litigiosissima accoppiata delle due donne, moglie e concubina, che viene trasferita, con molte delle battute del testo, alle due attrici, anche loro moglie e concubina, e che determina momenti trascinanti di rabbiosa comicità, grazie anche alle spumeggianti ondate di energia generate dalle due attrici vere (Ida Damiani e Daniela Picozzi). Sarebbe lungo citare tutte le corrispondenze, ma come dimenticare l’invenzione dell’assessore (un Raffaele Santoro convincentemente marpione) e del prologo, che Venditti si è sentito quasi “costretto” ad inserire. Nel prologo, infatti, svolto quasi in penombra, come segno di distacco rispetto al resto, il colloquio tra l’assessore e il custode del teatro (un disinvolto Roberto Palazzo, a suo agio anche come il cuoco arricchito papà di Gemma) svela la miseria della situazione e la mancanza di nobiltà con cui si gestiscono beni pubblici di interesse culturale. Lì, con il garbo del teatrante ma con il cruccio del cittadino, Venditti si toglie sassolini, pietruzze e vetrini dalle scarpe denunciando la mancanza di un teatro vero in città e le difficoltà che una compagnia di qualità incontra per essere profeta in patria, soprattutto quando è riuscita tante volte a “profetizzare” fuori città ed anche fuori regione ed anche fuori nazione. Non solo si è divertito, ma si è anche sfogato… ah, Venditti, tremendo Venditti!…
Tornando alla logica del doppio, quasi tutto il secondo atto della commedia è poi dedicato alla recita che nella commedia reale i guitti devono fare per fingere di essere i nobili parenti del marchesino. Qui, nonostante qualche ricercato richiamo alla situazione reale della compagnia, vengono di più seguiti, al di là dei tagli, il testo e lo spirito del copione scarpettiano. Ma lo spettacolo procede comunque gradevole, grazie al convincente affiatamento della squadra in scena.
E si arriva al finale tradizionale con la piena disponibilità del rispettabile pubblico a donare il suo consenso e i suoi applausi… ed a partecipare con l’ascolto e con le parole all’incontro doposcena che Venditti non manca mai di organizzare e che costituisce un arricchimento ed a volte anche uno spettacolo a sé.
I saluti sono pieni di di promozione e di promesse. Viene chiamato sul palco Luigi Sinacori, il capocomico e sceneggiatore di Arcoscenico, con cui il PTB ha creato una coppia di fatto, e viene preannunciato per il mese di gennaio il ritorno di Hope, la pièce più matura di Sinacori. Infine, in periodo di Avvento, viene creata l’attesa per il tradizionale avvento dell’eduardiano Natale in casa Cuopiello, che Venditti ha realizzato in chiave filologica, fermandosi, come nella prima stesura dell’opera, ai primi due atti: quindi, da “Lucarié, scitate!” a “Tu scendi dalle stelle, Concetta mia…” Non vedremo morire il buon Luca Cupiello né sentire Tommasino finalmente ammettere che ‘o presebbio gli piace, ma la torta è gustosa anche senza la ciliegina finale…
Casa Cupiello in due atti, lanciata anni fa, era una sfida rischiosa, ma il buon Mimmo è riuscito a vincerla, con un bel ghigno di soddisfazione. Ah, Venditti, tremendo Venditti …
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