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Venticinque anni fa moriva Padre Turoldo. In “Luminoso vuoto” le sue ultime poesie i suoi ultimi scritti
“[…] Descriver tutte le parti dolenti? Tutte le fasi di spasimo? Impossibile; e per di più imprevedibili. Sarà necessario abituarsi: come si faccia Dio solo lo sa. Non pensare, fingere di non pensare, di non sentire. Ad esempio, non è che mi sia assente la paura di impazzire. E’ così, ormai da mesi. Signore, abbi pietà di me”. Terribile e al tempo stesso meravigliosa testimonianza di cosa sia il dolore fisico, e non solo, in questo scritto ultimo di Padre Davide Maria Turoldo (morirà di cancro, pochi giorni dopo, nel febbraio del 1992). Raccolto e conservato gelosamente dall’amico e confratello padre Camillo de Piaz che così annota: “ Scritto una settimana prima di morire. Per se stesso”. E oggi pubblicato in un elegante volumetto (Davide Maria Turoldo Luminoso vuoto- Ultimi scritti Premessa, postfazione e antologia critica a cura di Giorgio Luzzi, Servitium Editrice (MI), 2016 pagine144, Euro 12,00). Si rende omaggio a Turoldo in occasione del centenario della nascita (1916/2016) e del venticinquesimo della scomparsa. Dirompenti questi ultimissimi suoi versi:
Gli altri scrivono di “altopiani”,
in forme stupende,
parlano con tutti…
sanno tutte le malizie della mente
le sante malizie,
sono dentro il grande fiume delle lettere,
del discorso umano:
e sono certo che hanno ragione.
Ma io non riesco, non riesco,
sono un maniaco di Dio.
E’ come se avessi la fronte un chiodo…
Turoldo, quindi, “maniaco di Dio”, ma non solo: “… egli era anche non molto meno, un maniaco del verso, del suono, del ritmo, una forte e assolutamente paritetica mano che batta sulla pelle del proprio tamburo a mandare segnali scivolanti, orizzontali, agli altri abitatori dell’altopiano a metterli in comunicazione tra loro”. (Luzzi). “Mettere in comunicazione gli abitatori dell’altopiano”, quasi un epitaffio dell’intera esistenza di quest’uomo, padre dei Servi di Maria e poeta. Ma chi è Padre Davide Maria Turoldo, nato in un paesino friulano (Coderno) il 22 novembre 1916 battezzato col nome di Giuseppe e per gli amici “Bepi il rosso” per via della fulva capigliatura? Un uomo robusto dagli occhi penetranti e dalla parola vigorosa, come pietra; combattivo, forte, pugnace. Originalissimo poeta, ma soprattutto prete “scomodo”: la scelta coraggiosa e difficile di prender parte personalmente alla Resistenza e poi scomodo per le sue improvvide (per taluni) omelie dal pulpito del Duomo della Milano degli anni ’60 che non gli risparmiò critiche feroci e attacchi violenti. Attacchi che non ebbero mai veramente fine. In Turoldo l’uomo e il poeta si fondono, sono tutt’uno. La sete dell’apostolato è sete costante, i suoi versi come semina, germinazione sicura. Non può, non sa trattenersi: è la luce della Fede che lo illumina verso un cammino che sa che non può essere altro che quello indicato dal Signore. Tutto ciò afferisce alla sfera teologico – metafisica: visione ed esperienza piena di Dio che non annienta la nostra personalità, ma la potenzia al grado supremo. Uomo tra gli uomini, sempre. Questo libro curato da Giorgio Luzzi non ci restituisce solo il Turoldo che conosciamo, attraverso un inedito mannello di “meditazioni liriche” e scritti in prosa oltre a un’ importante mini antologia di scritti critici a firma di importanti poeti e critici tra cui Ungaretti, Fortini, Giudici, Luzi, Porta, Zanzotto e ancora Bo, Guarracino, Ramat, ma anche un singolare, inaspettato scritto dal sapore di confessione. Turoldo, un mese prima di morire, sente il bisogno, l’urgenza di confessare, si potrebbe dire, “un peccato di gioventù”: aver dedicato una poesia a Mussolini. Si era nel 1934 e il poeta aveva solo diciotto anni. Scrive: “Ebbene, amici, cedo e rilascio per iscritto anche questo ricordo. Ce l’ho qui, da sempre, nella mente come una lucida ferita. Ero nato troppo presto per non subire; e il tempo della Libertà è venuto troppo tardi. Da ricordare che stavo ostaggio in seminario, e perciò non finirò mai di scusarmi e di confidare nel perdono. Per fortuna che, dopo, appena uscito e giunto a Milano, è cominciata subito l’altra storia: questa, che sto ancora vivendo. Dunque, anch’io ho cantato al Duce”. A seguire una breve lirica di diciassette versi. Turoldo chiede di essere perdonato. E Luzzi così scrive: “E’ la sua lucida ferita” tenuta segreta, almeno nel suo significato più profondo, per un’esistenza intera. […] …Vai in pace, David, noi tutti ti assolviamo, i tuoi versi all’”Uomo” sono persino belli”.